Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi.
Quando ho visto La Grande Bellezza, ho immediatamente pensato che di Jep Gambardella, l’amabile scrittore interpretato da Servillo, re indiscusso delle notti bianche romane, ne esistessero tanti, forse troppi al mondo. Perpetuare l’estenuante mestiere dello stare a campare è d’altronde lavoro di chiunque viva il quotidiano, e lasciare che sia il tempo a travolgerci e non viceversa è la condizione egemone della nostra società, disincantata e disillusa. Per questo ho creduto che Jep, in quelle feste, sperasse soltanto di trovare sé stesso. Perché trovando sé stesso avrebbe ritrovato l’autore dell’Apparato Umano, l’unico romanzo che aveva scritto e l’unico ricordo che valesse la pena ricordare. La Grande Bellezza è così il viaggio, tra gli attici di Piazza di Spagna e le note di Raffaella Carrà, che condurrà Jep nel luogo ove l’immaginazione incontra la realtà: la magica Roma.
L’apparente parabola nichilista di Sorrentino, quindi, nasconde un lungo cammino nel deserto dell’agiata società romana. E ho immaginato che questo potesse esser raccontato da chi, in un’altra era e con un altro mezzo, era già fuggito.
Gli America, con A horse with no name.
La carriera degli America non fu poi tanto diversa da quella di Jep Gambardella. Figli di alcuni militari statunitensi di stanza in Inghilterra, i tre ebbero successo essenzialmente con due brani: Ventura Highway e A horse with no name. Le due canzoni si somigliano; narrano di strade, di sentieri, di percorsi. E la controversa storia che portò alla genesi del cavallo senza nome racchiude il significato di entrambe.
Dewey Bunnell era a Londra insieme agli altri due componenti del gruppo, Gerry Beckley e Dan Peek. Sulle pareti della casa-studio dove registravano erano appesi due quadri; uno era la raffigurazione di un cavallo e portava la firma di Escher; l’altro, invece, era di Dalí e mostrava un deserto arido e tranquillo. Per un attimo la mente del cantante ritornò alle aride giornate passate nel deserto dell’Arizona. L’infanzia vissuta lontano da casa aveva segnato i ricordi e le emozioni del giovane cantautore e il costante desiderio di tornare, almeno con la mente, laddove tutto ebbe inizio prese il sopravvento.
Così chiuse gli occhi e lasciò prendere vita l’immaginazione.
La musica arrivò da sola. Erano due accordi che si ripetono, un mi minore e un re 6/9. Le parole non potevano che raccontare la storia di quel cavallo senza nome.
On the first part of the journey
I was looking at all the life
There were plants and birds and rocks and things
There was sand and hills and rings
The first thing I met was a fly with a buzz
And the sky with no clouds
The heat was hot and the ground was dry
But the air was full of sound
I’ve been through the desert on a horse with no name
It felt good to be out of the rain
In the desert you can remember your name
‘Cause there ain’t no one for to give you no pain
La, la, la…
La prima strofa racconta lo stupore del viandante dinanzi la natura nel deserto. Come Paolo in quel di Damasco, il pellegrino rimane folgorato dalla bellezza del silenzio, così soave e rumoroso al contempo. Andare fuori dal caos del mondo permette di scorgere i nascondigli più invisibili dell’anima e trovarli è il motivo della fuga. Gli alberi, gli uccelli, la mosca che ronza, sono manifestazioni della sincera solitudine di cui a volte abbiamo bisogno. Stare da soli serve ad ascoltare i bisogni più profondi del nostro Io, stando lontano dagli echi di chi non sa ascoltare. Nessuno conosce realmente noi se non noi stessi.
In the desert you can remember your name, cause there ain’t no one for to give you no pain..
Jep intraprende la stessa avventura. Stanco della vacuità della realtà, si immerge nel nulla, nel deserto degli attici della capitale, ascoltando i sibili stridenti dei cosiddetti intellettuali e osservando gli insulsi spettacoli dei presunti artisti. Vuole perdersi negli spazi vuoti lasciati dal tempo che, incolmabili e inconsolabili, lo isolano da qualsivoglia forma di raziocinio. Ma in realtà Jep Gambardella vuole fuggire dalle paure che lo attanagliano; la forza motrice che aveva partorito l’Apparato Umano non c’è più e scrivere sul nulla è un’impresa fallita anche a Flaubert. È così ora di andare via dove nessuno guarda la realtà, dove nessuno ha interesse per nulla. È ora di ballare A far l’Amore comincia tu e svegliarsi come se la mattina non avesse più senso. Ah-ah-ah, a far l’amore comincia tu..
After two days in the desert sun
My skin began to turn red
After three days in the desert fun
I was looking at a river bed
And the story it told of a river that flowed
Made me sad to think it was dead
Ascoltando la seconda strofa si viene colti da un magone. Il viandante, ormai abituato al nulla intorno a sé, resta contraddetto da un letto di fiume prosciugato. Pensare che una volta lì c’era vita lo rende triste. È così che Bunnell immagina la disperazione di un uomo dinanzi la nostalgia di quanto perduto. L’inesorabile fine giunge ovunque e per chiunque, ma i ricordi talvolta infieriscono su una ferita mal rimarginata. L’uomo sul cavallo senza nome, d’altronde, non ha nient’altro che i ricordi nel deserto. È solo, terribilmente solo, e ora non è come prima.
Ora, fa male.
È il dolore che Jep prova quando riflette su sé stesso e su ciò che lo circonda. Ogni notte partecipa a questo teatrino di feste insieme ad alcuni compagni di sventura e ogni notte rimembra come tutti siano nella stessa condizione. Vivono di ricordi, di ciò che erano, talvolta anche distorcendoli, ma Jep no. Jep è andato lì proprio per capire quanto sia solo e non ha alcun bisogno di mentire a sé stesso. Lui ora sa chi è e sa bene anche chi siano gli altri.
Siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, prenderci un po’ in giro…
https://www.youtube.com/watch?v=YizXv196PBo
La nostalgia ha accompagnato e accompagnerà Jep durante tutta la sua vita: da piccolo, quando alla domanda “che cosa ti piace di più veramente nella vita?” rispondeva “l’odore delle case dei vecchi”; da adulto, quando una mattina, tornando da uno di quegli insipidi salotti, incontra il marito di Elisa, che un tempo era stata il suo primo (e probabilmente unico) amore: Elisa è morta, lasciando dietro di sé solo un diario chiuso da un lucchetto, che l’uomo ha violato, in cui la donna narra dell’amore, mai perduto, verso Jep. Era Elisa, era l’amore, la forza motrice dell’Apparato Umano.
Ma proprio nel momento in cui le speranze sembrano abbandonarlo definitivamente, ecco che l’illuminazione arriva, ancora sotto forma di ricordo: Jep si reca all’Isola del Giglio per un reportage sul naufragio della Costa Concordia. E proprio qui, ricordandosi del suo primo incontro con Elisa in un flashback, si riaccende in lui un barlume di speranza: il suo prossimo romanzo è finalmente pronto per venire alla luce. Sullo sguardo finalmente sereno di Jep, che osserva sorridente l’alba romana, si chiude il film.
‘Cause the desert had turned to sea
There were plants and birds and rocks and things
there was sand and hills and rings
The ocean is a desert with it’s life underground
And a perfect disguise above
Under the cities lies a heart made of ground
But the humans will give no love
It felt good to be out of the rain
In the desert you can remember your name
‘Cause there ain’t no one for to give you no pain
La, la
Dopo tante feste Jep è libero, dopo nove giorni il cavallo è libero. Il deserto nasconde un oceano di vita e Roma è proprio così. Jep ha concluso il suo viaggio e adesso può tornare a scrivere.