
“Hai 40 piatti nel menù e hanno tutti lo stesso sapore.”
Tedesco, Gran premio della giuria alla 66a Mostra internazionale d’arte cinematografica al cinema di Venezia, improbabile, queste sono le prime cose che mi vengono in mente pensando a Soul Kitchen. Uno di quei film dove comprendiamo che la sceneggiatura è un concetto che va ben oltre la storia in sè, alquanto semplice in questo caso, ma si sviluppa nei dialoghi, nei contesti creati, nei personaggi, uno di quei film che ci piacciono senza una logica lineare. Questo è Soul Kitchen, il nome di un ristorante disorganizzato almeno quanto la mente e la vita del protagonista, che ne è il proprietario.
La sua rocambolesca vita d’altronde ci proietta nel mondo della vita vera, delle sue relazioni, emozioni, dei fratelli con tanto cuore ma nessuna voglia di lavorare legalmente, dei cuochi lanciatori di coltelli, delle cameriere artisticamente misantrope. Ok, forse un pò iperbolizzato come scenario, ma pur sempre comico, di quel comico folle che ci fa sorridere a crepa pelle, dell’arte dell’arrangiarsi, dell’arte di credere che con il cuore anche l’improbabile diviene possibile.




