Chiamami con il tuo nome – Dov’è finita quella pura emotività?
Fretta e raziocinio, schemi e cinismo. Arranchiamo nella rapidità di una frenetica umanità che non sa più fermarsi a osservare, a domandarsi dove si sia arrivati, che identità si possieda, a cosa si stia rinunciando.
Così, neanche il tempo di uno sguardo e si è già convinti di cosa qualcosa voglia dirci.
Ma Chiamami con il tuo nome risponde con una sottile e quanto mai emotiva poesia a tale dominio del controllo e del giudizio. Si tratta di un film che non vuole essere capito nel senso odierno del termine, non va canalizzato in uno schema valutativo. Chiamami con il tuo nome appartiene alla libertà di mostrare un sentimento e cosa esso implichi per la formazione di un diciassettenne.
È l’affresco di uno spaccato italiano isolato dal mondo, dal luogo della nostra storia. Un luogo malinconico nel suo non poter essere definito, pur recuperando gli spazi, i costumi e i colori di un Belpaese che oggi quasi non si riconoscerebbe. Probabilmente a cavallo tra anni ’80 e ’90, quelli del PSI, quelli del bagno al lago, dei paesini in pietra vissuta, dispersi e ritrovati in passeggiate che scandiscono il tempo di un’estate che sembra eterna, tra noia e scoperta.
Qui una famiglia ebrea italoamericana passa le sue vacanze. Il padre del nostro protagonista, Elio, è un professore di archeologia che ospita ogni anno, in quei luminosi due o tre mesi, uno studente per la preparazione della tesi.

Quell’anno sarà il turno di uno studente speciale: Oliver (alias Armie Hammer). Si, speciale, è importante rimarcarlo per la purezza che porterà in vita un qualcosa di ben più potente di una semplice relazione.
Perché Chiamami con il tuo nome è un film che tramite l’omosessualità sa mostrarsi in tutta la sua verità: è un film sulla formazione emotiva di un giovane che ancora non conosce se stesso, il modo di frenare la passione, la fragilità, la perversa curiosità.
Ancora no, perché ancora vive nella possibilità di vivere per la prima volta tali sussurri del nostro animo, senza razionalizzazioni che reprimano o che giustifichino.
Così, in un tempo che si dilata e si restringe nei colori caldi e distanti di una regia meravigliosamente nostalgica, tra gli amici dell’estate e le ragazze amiche da una vita con cui scoprire la sessualità, due ragazzi, uno ancora ingenuo e l’altro sinceramente buono, si amano.

L’amore di questa storia si contamina con un eterno sguardo all’immateriale, sottilmente intriso di rimandi alla bellezza dell’antichità, alla ricerca della perfezione greca: una perfezione non fatta di risultati o profitti, ma contemplazione della purezza, irraggiungibile e talvolta sfiorabile.
Chiamami con il tuo nome ci rimanda al platonico ideale di compiutezza nell’alterità: non è in noi stessi che si può toccare il divino, che si può osservare il meglio di noi, ma nell’altro.
Nello sguardo dell’altro ritroviamo il nostro che diviene altro per guardarsi. Nell’altro ritroviamo noi stessi che comprendiamo ciò che c’è di bello in noi. Con l’altro compiamo, dunque, un passo verso la bellezza stessa, una bellezza che non diviene, ma che è, sempre.
Non si tratta di una mera carineria chiamare l’altro con il proprio nome, ma di un accedere a qualcosa che il controllo razionale non ha la possibilità di concepire.
Così, in una storia spontaneamente non scandita dal ritmo a cui siamo abituati, maturiamo un qualcosa nei luoghi sotterranei del nostro io.
Non sappiamo bene quando, ma a un certo punto del film, in momenti diversi, forse per alcuni mai, quel qualcosa esplode in noi.

È una riscoperta di una purezza dimenticata, che ci rende liberi di essere noi stessi, del sentirci perversi nel bisogno della sessualità per poi, subito dopo, temerla. Una purezza del non avere la minima capacità di controllare un’emozione, di essere ancora in una fase in cui è possibile viverla senza filtri metodici.
Una fase di fragilità, in cui ancora si annida quella libertà a cui dobbiamo rinunciare in questo mondo.
Chiamami con il tuo nome non è un film sulla storia del vissero felici e contenti, ma su un istante dilatato dell’emozione più primordiale e contemporaneamente assoluta, un istante di formazione che nelle nostre vite forse non abbiamo avuto, forse abbiamo sottovalutato, forse abbiamo dimenticato.
Nel dialogo finale con il padre riscopriamo che la risposta di un poetico film sulla libertà emotiva non è quella di puntare semplicemente alle emozioni positive, ma di naufragare in quel mare conflittuale di paura e gioia.
Solo vivendola a pieno, solo accettandone la sofferenza, senza limitarsi per paura, se ne riscoprirà la necessità.
Così, come dirà il padre, va invidiato il nostro protagonista, potentissimo Timothée Chalamet, perché ha conosciuto quell’assoluta libertà, un qualcosa che va ben oltre il comprendere razionalmente il complesso essere umano, ma che a che fare con il viverlo, riscoprendone l’origine così semplice eppure così pura.





