Del lavoro accurato e meticoloso che c’è dietro la sceneggiatura e la regia di questa meravigliosa serie, si è già detto tanto. “Breaking Bad“ è senza ombra di dubbio uno dei migliori esempi di opera artistica che si può innalzare a paradigma di un certo modo di fare cinema. Vince Gilligan non si accontenta di mostrare il lavoro che c’è alla base di questa serie nella regia, nella scrittura; egli espande l’orizzonte e porta la storia con la sua connotazione tragica e ne fa esperienza condivisa. Attraverso quel procedimento già perfettamente descritto da Aristotele, la catarsi tragica, lo spettatore condivide la storia e ne fa esperienza intima, il contatto opera-osservatore è creato. Il giudizio morale entra in ballo assieme alla partecipazione emotiva alle storie dei personaggi.
Arriviamo però adesso ad un aspetto, un dettaglio che caratterizza il genio dietro la serie. L’ immagine qui su è tratta dalla quattordicesima puntata della quinta ed ultima stagione di Breaking Bad. La puntata in questione è intitolata “Ozymandias“. L’immagine vi ricorda probabilmente quella vista ad inizio articolo, raffigurante una statua. Quella statua rappresenta “Ramses il grande“, faraone d’Egitto, altrimenti noto come Ozymandias appunto.
Nel 1818 il poeta inglese Percy Shelley pubblica un sonetto con titolo omonimo al soprannome del faraone e alla puntata di Breaking Bad, dopo l’arrivo a Londra di una statua raffigurante proprio Ramses. Il sonetto si presenta come interpretazione della traduzione di Diodoro Siculo dell’iscrizione alla base della statua. Secondo il mito, Ramses solleciterebbe, per aiutare chi chiedesse, chi fosse e che cosa mai avesse fatto, di portare come prova la grandezza delle sue opere.
Ed ecco che la la poesia del sonetto riesce ad incontrare un’altra tipo di poesia, una poesia che veste i panni di una grandissima serie televisiva.
Si nota l’enorme capacità di Shelley che riuscì a portare ai suoi giorni e agli imperi ottocenteschi un monito che prende le sue radici dal passato. Come per Gus Fring, Walter White, Ramses, e tutti coloro che avevano costruito un impero con la propria sete di potere, si sono piegati alle sabbie del tempo.
«Incontrai un viandante di una terra dell’antichità,
Che diceva: “Due enormi gambe di pietra stroncate
Stanno imponenti nel deserto… Nella sabbia, non lungi di là,
Mezzo viso sprofondato e sfranto, e la sua fronte,
E le rugose labbra, e il sogghigno di fredda autorità,
Tramandano che lo scultore di ben conoscere quelle passioni rivelava,
Che ancor sopravvivono, stampate senza vita su queste pietre,
Alla mano che le plasmava, e al sentimento che le alimentava:
E sul piedistallo, queste parole cesellate:
«Il mio nome è Ozymandias, re di tutti i re,
Ammirate, Voi Potenti, la mia opera e disperate!»
Null’altro rimane. Intorno alle rovine
Di quel rudere colossale, spoglie e sterminate,
Le piatte sabbie solitarie si estendono oltre confine”.»