La capacità di ascoltare e di immergersi in splendide storie di mostri e fantasmi, di streghe e fate turchine, come palombari alla ricerca di rovine incagliate tra i fondali dell’oceano, è un lusso concesso solamente ai bambini. Crescendo, le favole che fino a qualche anno prima ci accompagnavano a letto per mano, ci facevano chiudere gli occhi con il recondito desiderio di ordine e giustizia, sbiadiscono e perdono dimensione. Insieme a esse svaniscono le nette categorizzazioni in buoni e cattivi, l’attesa scontata del lieto fine e, in un certo senso, la magia che avvolgeva ogni cosa. Quel bambino intanto diventa uomo e le sue favole, innocue bugie.
Una favola straordinaria
Tim Burton, mettendo in piedi Big Fish (2003), in realtà non fa altro che raccontarci una bella favola, come un padre ai suoi bambini: e questa favola è magica, ci sono giganti e streghe, uomini-lupo e villaggi incantati; c’è un amore fiorito dai narcisi gialli (nel film erroneamente tradotti “asfodeli”) e un grosso pesce di lago che nessuno riesce a catturare. Ma dentro a questa splendida favola il regista ha seminato tematiche e pensieri che di infantile hanno ben poco. Quanto è labile nella vita di un uomo il confine tra storia e realtà? E soprattutto, siamo sicuri che davvero sia sempre meglio una triste verità a una dolce bugia?

Edward Bloom (Ewan McGregor) e Sandra (Alison Lohman) da giovani [Big Fish]
Edward Bloom, al matrimonio del figlio William, racconta per l’ennesima volta a tutti gli invitati presenti la storia di come è nato suo figlio. Il giorno in cui nacque William, egli riuscì a pescare un grosso pesce, considerato da tutti incatturabile. William, imbarazzato e innervosito dalla solita dabbenaggine del padre, lo rimprovera e per tre lunghi anni i due finiscono per non sentirsi più.
Alla notizia del precario stato di salute in cui riversa il padre, William torna insieme alla moglie incinta Josephine alla casa paterna. Determinato a conoscerne la vera storia, lo prega di raccontargli la verità e non più quella sfilza infinita di racconti rifilategli fin dall’infanzia. Tuttavia, la pragmatica rigidità del figlio finisce per innervosire Edward, che ancora una volta ribadisce la veridicità di quelle storie.
Ai suoi occhi, il figlio William è, come direbbe Pascoli, un uomo che ha completamente lasciato morire il fanciullino che viveva in lui. Agli occhi di William, il padre è solo un vecchio con un passato minato di segreti, camuffati da ridicole storielle per bambini.

Edward (Albert Finney) e Sandra (Jessica Lange) dopo 30 anni ancora insieme [Big Fish]
Eppure, vere o false, quelle storie sono le storie di un’intera vita. Le storie della sua vita. Ora non manca che il finale.
Dottor Bennet: «Tuo padre ti ha mai raccontato del giorno in cui sei nato?».
William: «Un migliaio di volte. Lui catturò un pesce incatturabile…».
Dottor Bennet: «Non quella. La vera storia. Te l’ha mai raccontata?».
William: «No».
Dottor Bennet: «Beh tua madre arrivò qui verso le tre del pomeriggio. L’accompagnò in macchina un vicino perché tuo padre era via per affari. Tu eri prematuro di una settimana, ma non ci furono complicazioni, il parto andò alla perfezione. A tuo padre dispiacque di non esserci, però a quei tempi non usava che gli uomini fossero presenti in sala parto perciò io non vedo cosa sarebbe cambiato se ci fosse stato. E questa è la vera storia di come sei nato. Niente di straordinario, vero? Perciò io suppongo che se dovessi scegliere tra la versione reale e una versione ricamata che parla di un pesce e di una fede nuziale, sceglierei la versione ricamata. Però questo vale per me!».
Il mito di Ulisse
Big Fish sembra inserirsi magistralmente all’interno del filone artistico-letterario che riprende il mito di Ulisse, il Re-delle-Tempeste come Gabriele D’annunzio e Guido Gozzano amarono (chi sarcasticamente e chi non) definirlo.
Entrambi raccontano la storia di un viaggio la cui portata è tale da assurgere a epopea. Due personaggi a cui sta stretta la quotidianità della vita familiare, il cui animo può arricchirsi soltanto attraverso la continua ricerca, l’intrigante scoperta dell’ignoto. A questo punto è il viaggio a divenire storia, svincolandosi dalla vita stessa dell’individuo per elevarsi a parabola eterna, trasmissibile ai posteri.

Jacob Jordaens, Ulisse e Polifemo, 1635, Mosca, Pushkin Museum
Quando Ulisse tornò a Itaca, dopo vent’anni di peregrinazioni, era solo. Tutti i compagni erano morti in guerra o durante il viaggio di ritorno. Chissà quante delle storie raccontate una volta giunto a casa siano accadute realmente e quante ricamate dalla sua fantasia. Il racconto di un Ciclope con un occhio solo che urla «Nessuno mi ha accecato!», di Sirene metà donne e metà uccello, dei mostri Scilla e Cariddi… ma in fondo, ha davvero avuto tanta importanza? A distanza di migliaia di anni le storie di Ulisse continuano ad affascinarci, probabilmente proprio perché ci permettono di accedere a un mondo così distante dal nostro, tra gare con l’arco, aedi e terre ancora da scoprire, da presentarlo come surreale.
In un mondo tanto sconnesso e complicato, i cui eventi spesso paralizzano l’agire umano, in fondo ben si comprende il bisogno di un uomo di creare e di vivere la sua storia come un unicum che dà senso all’esistenza. La sfida più ardua, per chi lo ama e gli è vicino, sarà allora comprendere questa necessità e assecondarla. Ed è esattamente ciò che fece Penelope con Ulisse, così come Sandra col marito. Ma non fu l’unica. Lo stesso William, a chiusura del film, ammette: «A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa quelle storie. Esse continuano a vivere dopo di noi. E in questo modo, egli diventa immortale» .
Ma questo viaggio ha un termine, come nella versione originale di Omero, oppure no, come suggerì Dante stesso? In questo caso, a differenza della versione dantesca, Tim Burton decide di rimanere fedele all’epos, quello dove infine Ulisse, così come Edward, comprendono il senso ultimo del giungere a casa, all’emozione compiuta, alla curiosità placata nell’amore, traslata nel condividere.
Verità e bugie
In un episodio della sitcom statunitense How I met your mother, uno scambio di battute tra due dei protagonisti sigla indelebilmente la risposta al motivo per cui tanto spesso veniamo delusi da persone fino a poco tempo prima meritevoli di tutta la nostra ammirazione.
Ted: «Potrà essere scioccante per te Barney, ma alla gente non piacciono le bugie».
Barney: «Sbagliato! Alle persone non piace scoprire chi racconta bugie. Perché una bugia non è altro che una bella storia che qualcuno rovina con la verità».
In Big Fish William teme che, dietro a tutte le splendide storie del padre, si celino bugie in grado di cambiarne integralmente l’immagine costruita, ma al tempo stesso il rigore della sua età pretende di conoscere la verità, ed è disposto persino allo scontro pur di ottenerla. Solo alla fine si renderà conto di quanto, in realtà, bugia e verità siano insiemi facilmente intersecabili, soluzioni solubili irreversibili. E finirà anch’egli per esserne scrittore finale.

Scena finale di Big Fish (2003)




