Atlantis – Il dramma della sopravvivenza e il conflitto ucraino
Se le immagini raccontano il conflitto
Il fatto che oggi la tecnologia permetta di condividere testimonianze in tempo reale delle proprie esperienze di vita è particolarmente rilevante se si considera la portata della tragedia che si sta consumando all’interno dei confini ucraini nelle ultime settimane. La pubblicazione istantanea di video e foto ha avuto, come rovescio della medaglia, la quasi totale negazione dell’interpretazione individuale dell’esperienza di cui si è testimoni.

Il racconto della guerra in Ucraina è stata da sempre argomento di riflessione per il cinema. Molti registi hanno diretto documentari riguardo il conflitto nel Donbass e alle sue ricadute sulla popolazione locale, analizzando attentamente anche le ambiguità e i contrasti interni. Winter on Fire: Ukraine’s Fight for Freedom (E. Afineevsky, 2015), disponibile su Netflix, e Maidan (S. Loznitsa, 2014) restituiscono una preziosa testimonianza degli scontri avvenuti a Kyïv nel 2014, in seguito alla violenta repressione delle manifestazioni pacifiste contro la presidenza di Viktor Yanukovych.
Anche Revealing Ukraine (I. Lopatonok, 2019) offre, attraverso una serie di interviste, strumenti utili alla comprensione della situazione attuale come culmine delle tensioni già da molti anni alimentate da relazioni politiche controverse.
La finzione come elaborazione dell’esperienza
Ma come racconterebbe la guerra chi ne fa esperienza diretta? Non soltanto chi vive il fronte, ma chiunque abbia in qualche modo visto la propria vita stravolta da una guerra che forse non ha neanche voluto. Il cinema di finzione permette però di cambiare approccio al racconto dell’esperienza della guerra, arricchendo il racconto di elaborazioni linguistiche ed estetiche proprio perché si avvale dell’inventiva e della poetica di autori che troverebbero incomunicabile la propria percezione della realtà, se non attraverso un’interpretazione individuale.
Registi come Sergei Loznitsa, Natalya Vorozhbit, Iryna Tsilyk sono solo alcuni dei tanti che hanno saputo raccontare attraverso le immagini non soltanto i più imponenti e drammatici eventi che hanno e continuano a scuotere la nazione, ma anche e soprattutto le ripercussioni che tutto ciò ha sulla quotidianità dell’individuo e della società, nonché sull’ecosistema stravolto dall’azione bellica spesso in maniera irreversibile.
Vasyanovych fra tutti è il regista che ha dimostrato non soltanto una forte sensibilità per il presente e la sua complessità, ma ha deciso di volgere il suo sguardo al futuro e interrogarsi sulle conseguenze che il conflitto, che prima o poi avrebbe dovuto esplodere, avrebbe avuto sulla vita delle persone, sull’ambiente e sul mondo intero. Il suo è un cinema potente proprio per la fragilità umana che riesce a intercettare e scolpire in ogni inquadratura, raggiungendo l’universalità grazie a una radicale forma autoriale.
Atlantis: le conseguenze della guerra
Donbass, 2025. Ivan e Sergiy sono sopravvissuti alla guerra che si è conclusa un anno prima, ma non sembrano essere riusciti ad andare avanti – così come l’ambiente che li circonda. Si allenano ancora in poligoni improvvisati e vivono negli scheletri dei palazzi distrutti dal conflitto. Ivan è affetto da PTSD e in continua ricerca di violenza, l’unica cosa che la guerra non gli ha sottratto. Lavorano entrambi nella stessa fabbrica siderurgica che svetta tra le rovine, immensa e orribile.
È proprio nella fabbrica che Ivan si suicida, gettandosi nella fornace di rastrellamento, svanendo nella luce abbagliante generata dal metallo fuso. Riesce a trovare lavoro come autista di una cisterna d’acqua potabile e così ha modo di osservare la distruzione ambientale causata dalla guerra in tutta la regione, ma anche di incontrare la giovane Katya e prendere parte alla Black Tulip Mission con lei, che consiste nel recupero e riconoscimento dei cadaveri.

Vasyanovych non soltanto è produttore della maggior parte dei suoi progetti, ma anche sceneggiatore, direttore della fotografia e montatore. Il suo approccio alla regia trasuda questo eclettismo attraverso una forte consapevolezza linguistica ed estetica, chiara fin dalle prime inquadrature del film.
Per Atlantis sceglie di cercare come protagonista qualcuno che abbia avuto esperienze militari, qualcuno che abbia provato sulla propria pelle cosa vuol dire essere in trincea e sopravvivere.
Decide di affidare il ruolo ad Andriy Rymaruk, tornato dal fronte poco prima dell’inizio delle riprese, proprio per questo motivo.
La perfetta composizione della distruzione
Il richiamo alla retorica orwelliana nella rappresentazione del rapporto tra operai e industria è lampante, soprattutto nella scena in cui attraverso uno schermo gigante il probabile CEO anglofono annuncia la chiusura degli impianti a una folla di uomini in divisa.
Il concetto di tableau vivant è il più immediato dei riferimenti estetici per questo film, che si compone di pochissimi movimenti di macchina e predilige campi lunghi e pochi tagli per la narrazione di ogni singola scena. La lunghezza di ogni inquadratura è fondamentale per cogliere come il paesaggio risenta incessantemente dell’azione dell’uomo e delle sue macchine, ma anche per restituire la sensazione di simbiosi che i personaggi sentono nei confronti dell’ambiente circostante, sentendosi, come esso, abbandonati e irrimediabilmente deturpati dal passaggio della guerra.

Quando Sergiy assiste al rovesciamento di una fornace identica a quella in cui poco prima si era gettato il suo amico, anticipa il tema centrale di Atlantis, che verrà esplicitato dalla seconda parte: la perdita dell’identità individuale come conseguenza a una guerra.
Ivan è da qualche parte lì, in uno degli strati lasciati a raffreddarsi sulla cunetta formata da detriti metallurgici. Irriconoscibile, perduto per sempre. Così come tutti i caduti in guerra che Katya e la sua équipe ricercano e catalogano, a prescindere dalla qualità o quantità del materiale organico ritrovato.
Imparare a sopravvivere, insieme
Il racconto dell’intimità tra i due non si concentra sull’aspetto romantico quanto su quello fisico. Fisico, non sessuale. L’unica scena in cui i due sono coinvolti in un amplesso è comunque costruita in modo tale da rendere l’azione dei personaggi significativa da un punto di vista universale. Al termine del loro rapporto, Sergiy spalanca il portellone e i due si abbracciano tra i corpi mummificati raccolti in sacchi neri, mentre una fittissima pioggia cancella qualsiasi traccia dell’orizzonte dal paesaggio circostante.
Successivamente, invece, è l’utilizzo di una telecamera termica a rappresentare contemporaneamente l’unicità del loro rapporto in quanto uniche persone presenti nella città ancora capaci di sentire qualcosa. Il discorso che affrontano è lucido e appassionato, e la temperatura rilevata dalla telecamera mostra che fisicamente sono ancora vivi, al contrario di ciò che li circonda.
L’incontro con Katya, una persona come lui segnata non soltanto dalla guerra, ma anche e soprattutto dalla sopravvivenza alla guerra lo convince di non poter far altro che accettare di essere il frutto delle sue esperienze mostruose, perché l’unica alternativa praticabile è rinnegare tutto, scappare e quindi sparire, proprio come Ivan è sparito lanciandosi nella fornace.
Vincitore del Premio Orizzonti alla 76ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Atlantis torna in sala per tre giorni l’11, il 12 e il 13 aprile, mentre l’ultimo film di Vasyanovych, Reflection (2021), è in sala dal 7 marzo.




