Il Significato di Midsommar – Il rito come estetica del lutto per Ari Aster

Antonio Lamorte

Ottobre 20, 2025

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L’elemento più preponderante che caratterizza l’estetica di Midsommar, partendo da immagini promozionali fino ad arrivare alle scene madri che compongono il film effettivo, è la (quasi) onnipresente luce del giorno di un’estate apparentemente eterna, che fa da contraltare alla costruzione da cinema slasher. Un cinema che, com’è noto, privilegia l’oscurità per far sì che la paura penetri la nostra mente. Ebbene, quasi onnipresente è questa luce perché, è bene ricordarlo, Midsommar si apre di notte, in inverno, con la neve.

«È una sorta di bizzarro festival, con cerimonie speciali e costumi particolari.»

(Pelle, all’inizio del film, nei confronti del Midsommar)

Il rito dell’esistenza nella narrativa di Midsommar

Esistono delle interpretazioni secondo cui Midsommar sia un film più rassicurante di quanto appaia in superficie. In fondo, il film comincia con la protagonista, Dani (Florence Pugh), che piange in preda alla disperazione, e si chiude con un primo piano di quello stesso volto che si trasfigura per via del sorriso più liberatorio che una mente, razionale o meno, possa concepire. Se si avalla questa interpretazione, non possiamo però trascurare le modalità con cui questo processo di drastico cambiamento avviene. Come si passa, quindi, dalla notte di inverno al giorno d’estate. Dal pianto agonizzante al sorriso che sigilla lo scrigno di tutte quelle sofferenze ormai passate.

Una scena in cui gli abitanti del villaggio cominciano i festeggiamenti del Midsommar

In mezzo a questo caos irrimediabile dell’esistenza vi è il rito. Un rito naturale, e per questo, forse, intrinsecamente diabolico. Lo stesso rito che governa il passaggio delle stagioni. Che trasforma la notte in giorno, ogni giorno. La solitudine e il dolore nella condivisione della gioia. La vita in morte.

Le scene cruciali del film, quelle in cui i personaggi, e Dani in particolar modo, apprendono i meccanismi di cui fanno parte, sono tutti dei rituali.

Come il rito, diventato ormai simbolo del film, dell’Ättestupa, in cui i due anziani settantaduenni della comune si lanciano dal precipizio per compiere l’ultimo atto di quel cerchio vitale così rigorosamente definito da prevedere rigidamente un inizio, un percorso e una fine.

«Invece di invecchiare e morire nel dolore, nella paura e nella vergogna, noi doniamo la nostra vita, come gesto […] prima che si rovini. Non fa bene morire lottando contro l’inevitabile, corrompe lo spirito.»

(La sacerdotessa Siv per spiegare la funzione dell’Ättestupa)

Questo però non è il primo rito a cui assistiamo all’interno della narrazione. Per via della struttura così sfrontatamente anticipatoria del film di Ari Aster, troviamo una natura profondamente ritualistica già a partire dalla prima sequenza, in cui Terri, la sorella di Dani, compie il terrificante gesto che annichilisce la psiche della protagonista. All’inizio ci sono dei messaggi, mandati via e-mail, che preannunciano il gesto. Poi, la preparazione meticolosa.

Lo srotolamento dei tubi che trasporteranno il monossido di carbonio all’interno della casa, l’applicazione del nastro per bloccare il ricircolo di aria, l’accensione della macchina. Noi non vediamo nessuna di queste azioni in maniera diretta, ma ne rievochiamo la sequenza quando assistiamo ai pompieri che, naturalmente sempre con fare ritualistico, spengono la macchina, seguono i tubi all’interno della casa, aprono le porte bloccate dai nastri e scoprono i cadaveri delle vittime.

Alla ricerca di un’estetica del lutto

La regia e il montaggio di Ari Aster non fanno che accentuare questo incedere programmatico. Ogni inquadratura è un virtuosismo di geometrica precisione che suggerisce una rigidità di fondo, sfrontata e pretenziosa senz’altro, ma che, indubbiamente, rispecchia la natura cerimoniale che si vuole applicare a ogni scena.

Sul perché di questa scelta di messa in scena così radicale, però, non possiamo far altro che supposizioni. È come se Aster, nel suo confrontarsi con il genere horror che, per la maggior parte dei casi, ha avuto come perno centrale la definizione di un’estetica della morte, avesse sentito il bisogno di elaborare un’estetica del lutto. Un’estetica che, parallelamente a quella dell’omicidio che caratterizza il genere, ha bisogno di un impianto coreografico che colpisca nella maniera più appuntita possibile l’occhio dello spettatore.

E questa estetica del lutto, sembra dirci Aster, ha lo stesso incedere lento e cerimoioso di tanti rituali messi in sequenza. Perché il rito, forse, nella sua meccanica prevedibilità, da parte di chi lo compie e lo celebra, rassicura. È il contraltare confortante a un’esistenza incerta e fondamentalmente crudele, che strappa via affetti in modo violento e ne elargisce altri che però soffocano ogni slancio vitale (Christian, il fidanzato di Dani).

A questo impianto, si somma poi la dialettica che si instaura tra numerose scene lungo tutto il film. La strage familiare dell’incipit richiama il momento futuro dell’Ättestupa (un suicidio in entrambi i casi, con due figure genitoriali che perdono la vita). Nelle scenografie vi sono dipinti e mosaici che esplicitamente anticipano i destini di tutti i personaggi. Come il quadro dell’orso che appare all’inizio del film sopra il letto di Dani, dipinto dall’illustratore John Bauer, o i ricami che descrivono le pietanze da preparare per far innamorare un uomo. Tutti destini che, come impareremo da alcuni dialoghi significativi, tendono a ripetersi ogni qual volta che la comunità accoglie chi viene dall’esterno.

Midsommar
L’illustrazione Stackars lilla Basse! di John Bauer che appare all’inizio del film

Questo elemento di religiosa ripetitività immutata non fa che aumentare la logica del rito. L’intera comunità si basa, in fondo, su questo. Le fasi dell’esistenza sono accuratamente definite mediante l’uso delle stagioni.

L’atto sessuale indirizzato al concepimento di nuove vite avviene attraverso un’inquietante cerimonia, in cui persone esterne alla coppia testimoniano e incitano attivamente il movimento dei corpi. I matrimoni devono essere approvati dai saggi.

Le nascite stesse sono accuratamente pilotate per preservare le linee di sangue. Vengono intrapresi esperimenti disgenetici affinché, di tanto in tanto, venga partorito un profeta deforme (il personaggio di Ruben) che avrà l’incarico di redigere le sacre scritture per gli anni avvenire.

Infine, la morte. Coerente con tutta la determinatezza statica propria di un cerimoniale religioso, su cui sono fondate le radici di questa strana esistenza.

Ciò che affascina in questo contesto è che, nonostante i personaggi del villaggio vivano in questo schema che non ammette eccezioni, il ruolo giocato dalle emozioni non venga affatto ridimensionato. Anzi, viene collettivizzato. Come in una sorta di condivisione sacramentale, per cui anche chi semplicemente assiste al rito dell’atto sessuale geme di piacere. Chi ammira la fine dell’esistenza altrui soffre come se l’esistenza che cessa fosse la propria. Perché il rito, nella sua stessa definizione è anche questo. Una struttura calcolata di cui tutti conoscono lo svolgimento, e di cui tutti, quindi, sono partecipi.

Il prologo della scena dell’Ättestupa

In questa brutale comunione dei sentimenti, Dani riesce a liberarsi di tutti i pesi che affollano il suo spirito. Rinasce, come il sole presente in quel termine, Midsommar, che dà il nome alla festa. Perché, alla fine, ciò che le è mancato davvero per riuscire a esorcizzare il lutto è stata l’empatia degli altri. Di coloro che giacciono, infine, inceneriti sotto un sorriso che riconosce la morte (anche violenta) come una naturale conseguenza della vita. Un sorriso consapevole che alla tristezza del momento più buio va ciclicamente alternata la gioia di un’esistenza vitale, che danza sugli ipnotici ritmi della pazzia in un giorno senza notte.

La sceneggiatura di Ari Aster si chiude con queste esatte parole:

«La sua espressione passa dalla PAURA all’ENTUSIASMO, poi di nuovo alla CONFUSIONE. All’improvviso scoppia in una RISATA improvvisa (che non possiamo udire a causa della musica e del FUOCO ormai assordante).
Dani è ora sopraffatta da un invadente senso di orgoglio e appagamento. Questo si trasforma presto in un’esaltazione frenetica. Dani SORRIDE RAGGIANTE. È stata accolta da una nuova famiglia. È Regina. Non è sola.
Un SORRISO finalmente si apre sul volto di Dani. Si è abbandonata a una gioia conosciuta solo dai folli. Si è persa completamente, ed è finalmente libera. È orribile ed è bellissimo.»

(Ari Aster, Midsommar)

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  • Antonio Lamorte

    "Una volta mollata l'anima, tutto segue con assoluta certezza, anche nel pieno del caos." - Henry Miller

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