Stilizzare il passato, trattarne i temi e connettere storie che di temi storici si nutrono è affare del cinema da sempre e per sempre.
Contestualizzare grandi avvenimenti, avvenuti ieri, in una storia che osservi ma crei una sua narrazione autonoma è uno dei modi con cui il cinema si connette alla realtà.
I film sulla guerra, i gangster-movie, il cinema in costume, ne sono alcuni esempi. Storie che reinterpretano la storia.
Stilizzare il presente, invece, è assai più complesso. L’oggi spesso viene osservato da prospettive che ci sembrano ben più documentaristiche, o che si muovono nella poetica del luogo comune.
Raramente fare film sull’odierno mondo riuscendo a trovare una propria autonomia narrativa, tale da poter avere uno stile che prescinda il tempo o lo spazio trattato, ma che si identifichi come tale, risulta semplice.
Collateral è, per questa ragione, un esperimento affascinante.
Un omicidio quanto mai imprevisto, per i caotici ma particolari avvenimenti che l’hanno preceduto, subito si mostra capace di sottendere una storia ben più grande.
Tra l’inaspettato e l’irrilevante, perché di morti purtroppo ce ne sono a dozzine ogni istante, c’è qualcosa che sussurra complessità dalla portata e dall’impatto ben più colossale.
Così si intrecciano storie, che da una pizzeria di basso lignaggio raggiungono servizi segreti ambigui e politici alla ricerca di un’identità.
Collateral ambisce a narrare ogni sfaccettatura che “collateralmente” un piccolo tragico avvenimento può risvegliare, ma non solo. Collaterali ambisce a narrare ogni sfaccettatura di ogni sfaccettatura risvegliata, ritraendo sfumature di un’intera umanità.
Così vanno a formarsi cerchi concentrici connessi da una ben più sottile, a tratti impercettibile, visione d’insieme, perché essi vivono di diversi livelli, ma fanno parte di uno stesso mondo.
Ma soprattutto, perché nell’imprevedibilità del caso, ogni circostanza influenza un’altra in un eterno circolo vizioso ad infinitum.
Così, la storia di una donna distrutta dalla sua scelta di essere un soldato può intersecarsi, senza neppure mai scoprirlo né anche solo ipotizzarlo, con il grande dilemma dell’immigrazione nell’Occidente. Ed a loro volta, questi, si intersecano con una sacerdotessa lesbica, con un politico che vuole tornare ad essere un uomo e con una donna che si è persa nel mentre della sua vita.
Ma qual è il collante di tutto ciò?
Cosa fa reggere la storia, cosa le permette di non disperdersi in tanti piccoli ritratti sconnessi?
L’impresa in cui tale serie Netflix si cimenta è davvero ardua, e sono due gli strumenti che portano tale carico nella speranza di riuscire.
Il primo è l’interessante e perpetuo conflitto di implicito-esplicito presente nella narrazione.
Abbiamo infatti fasi narrative fin troppo auto-referenziali, dove viene palesemente esplicitato il messaggio di alcune scene: momenti che denunciano la chiusura mentale di quest’epoca, così come l‘inconsapevolezza del tragico smarrimento dei singoli, in un mondo di tutti e di nessuno.
Tali fasi, però, profondamente evidenti nel loro narrarsi, vanno a contrastarsi con fasi ben più compresse, non dette, di sofferenza ed alienazione. La narrazione riesce a volte solo a sussurrare uno sguardo, attraverso luci fredde, ambientazioni de-umanizzate, così da portare una tensione nello spettatore costante e di difficile comprensione. Qualcosa non ci è dato sapere, ma ne percepiamo la presenza.
Questo sbalzo narrativo, a tratti forse troppo forte, è però assai funzionale a mantenere un attaccamento alla storia: perché ne vediamo appunto i significati più umani, la connessione esplicita ad un’umanità che non si parla, ma si influenza senza dirselo; ma non finiamo per vederci tanti ritratti sconnessi, perché tutto è sotteso ad una tensione non detta, ma che implicitamente connette le storie, poiché quel non dire, quel comprimere tiene viva la ricerca, risvegliando in noi quella consapevolezza che solo un buon Giallo sa darci, che ci sia una storia da scoprire.
Due livelli complementari e necessari l’uno all’altro, per poter raccontare uno spaccato, ma attraverso una storia che lo racconti.
Ed è proprio qui che subentra il secondo “strumento”, la detective della nostra storia, Kip Glaspie alias Carey Mulligan. Ella è un grigio collante al tutto. Grigio perché non ne conosciamo davvero l’essenza, se non per piccole certezze.
Sappiamo che c’è una sincera empatia in Kip Glaspie per le vittime, non è ancora congelata in lei la speranza di fare del bene, non è ancora un cinico detective disilluso. Eppure sappiamo anche che tale bontà non traspare neppure un istante, perché non ci è dato sguardo emotivo su quasi nulla in Collateral, ma anzi la nostra Detective è una stoica moderna, divenuta tale probabilmente per sopravvivere al mondo.
Colei che fu atleta porta ordine in questa realtà narrata, non perché vi fosse disordine, ma perché tutto sopravvive anche senza che si sappia nulla, tutto marcia senza sapere da che parti sia realmente composto. L’ordine portato dall’intensa e distaccata protagonista ha a che fare piuttosto con una necessità insoddisfatta: nulla viene risolto perché non è una storia che vuole moralizzare, non è una vittoria contro il male, ma semplicemente un lucido compito da svolgere.
Ella tocca tutta l’umanità di questa serie, ma non comunica riscoperte al mondo, ottiene il massimo nei riuscire nei suoi intenti, si concede la possibilità di migliorare qualcosa ma niente di più.
E’ un passaggio complesso ma che svanirà di nuovo, in un eterno ritorno dell’autonomo avanzare del mondo. Alcuni vincono, altri perdono, ma per questa volta, non per sempre.
Collateral, dunque, forse ci riesce: stilizza il presente mostrandone il costante grigio dato dal saper guardare in un mondo che sta svanendo.
Non romanza ma neppure documenta.
Ritrae una collaterale connessione di un’umanità profondamente diversa da se stessa, senza neppure saperlo.