STABAT MATER DOLOROSA – la visionaria opera prima di SIKSA
Una sera di marzo di fronte il piccolo ingresso del Beltrade, aspettandomi una proiezione non conforme, senza sapere troppo di più.
Il collettivo progetto itinerante meneghino Tomboys Don’t Cry, in collaborazione con Cinema Beltrade, ospita per la prima volta in Italia SIKSA, performer polacca, dissidente femminista e artista poco etichettabile, affiancata nel proprio progetto musicale dal compagno d’arte e di vita Piotr Macha e ora, nel loro esperimento cinematografico, dall’occhio di Piotr Buratyński.
Sul momento non conoscevo niente delle intenzioni o della sua sola identità, potendo unicamente affidarmi allo schermo, dopo avere prestato orecchio a una concisa introduzione che Alex Freiheit (aka SIKSA) conclude con un dubbio: «have a nice something».
L’opera prima del duo polacco si presenta sin da subito al buio della sala con un annuncio visivo netto e limpido – che poco spazio lascia a interpretazioni troppo parallele – da attendersi da parte di registi giovani, sconosciuti quanto in erba e, forse, eccessivamente desiderosi di riferire in immagini i termini della propria poetica.
Nessun titolo di testa, ma un’abbondante e provocante giovane ragazza di sgargiante vestita, una venditrice ambulante, si appresta ad allestire un banchetto di merchandise della stessa band autrice del lungometraggio. Sta in uno scenario desolato, quasi isolato, se non per la sola altra presenza, quella dell’uomo acquirente: un’immagine sporca, violenta, pacchiana, temibile la sua, consumista.
Dopo un acquisto accompagnato dal sottofondo pseudo narrativo di una voce fuoricampo (quella di Alex) al grido «not me», si consuma l’atto finale dell’introduzione: in una sorta di rituale dai tratti sacri e sacrificali, la merce comprata si brucia e l’uomo, inquadrato di spalle, vi si masturba sopra.
Il montaggio si defila dalla narrazione lineare per infittirsi di flash carnali, close-up di vecchio materiale fotografico erotico, labbra, vagine spalancate, gioielli su nudi femminili, nel ritmo serratissimo della scarica di immagini, ma non meno disturbanti in quanto alla loro imprevedibilità e per la subitanea associazione alla scena del rituale in atto, alla violenza consumistica del compratore. STABAT. MATER. DOLOROSA. Capitola il titolo sullo schermo.

Se quella narrativa, in ragione delle scelte sperimentali operate dagli autori, non è propriamente scandagliabile – o non secondo le forme narratologiche tradizionali –, almeno la struttura audiovisiva dell’opera lo è.
Quest’ultima si articola in quattordici sequenze, perlopiù slegate tra loro, tra le quali l’unica costante resta l’accompagnamento musicale della band autrice del film. C’è chi, per questo tratto, si è azzardato a definire la messa in scena di STABAT MATER DOLOROSA alla stregua di quella di un musical – punk e femminista, o noise-fitness, come SIKSA si definisce – dimenticandosi che, all’infuori della scena finale, in quasi nessun caso i personaggi conducono l’azione attraverso un’esibizione musicale.
La musica resta in un ruolo di sottofondo, facendo piuttosto le veci di un narratore fuoricampo, mentre la band stessa tenta di fornire alle immagini un collante referenziale. Invero, c’è pur da dire, che lo fa con un’intenzionalità eccessiva, a tratti sfociando nel didascalismo.
Le prime due sequenze, dunque, si rifanno entrambe a quell’intenzione che chiamerei di derisione ribelle, affine ai temi trattati dalle stesse canzoni narranti. Alex si fa radere i capelli a zero, gridando in sottofondo i dolori dell’essere costretta in un ruolo di genere standard, che non le appartiene, da parte di chi la ama – come il proprio ragazzo. Nella seconda, invece, è un altro uomo che a sua volta la ama a troncarne e incanalarne le inclinazioni, è il padre che stavolta ne devia la vita: lei vuole un cane, ma non può trattarlo come vorrebbe, come un figlio. Dovrà allora partorirne uno vero, per la propria famiglia e per la discendenza, prima che per se stessa.
Fino a questo momento è il leitmotiv della ribellione illustrata a costruire l’unico collante strutturale dell’azione. L’intero film si potrebbe definire come una ponderata collazione di videoclip relativi alle tracce dell’omonimo album di SIKSA (STABAT MATER DOLOROSA). Ma questo è un album audiovisivo, non musicale e il contatto con il più importante precedente Lemonade di Beyoncé è preponderante, ed è la stessa Alex ad affermarlo.
Dalla quarta sequenza in poi, un altro filo rosso si scorge all’interno della trama di questa sorta di cinealbum. Si tratta di una traccia fantasma, di una canzone visiva che attraversa il lungometraggio con passo felpato, quando la musica cessa e a essa si sostituisce la rarefazione delle parole di Alex che dalle canzoni riceve il testimone della voce narrante, calmando il proprio tono.
Stiamo parlando di quelle scene di ritratto familiare e di ambientazione bucolica – il giardino della casa d’infanzia, presumibilmente – che trafiggono malinconicamente la struttura riottosa di STABAT MATER DOLOROSA, determinandone anche le rotture nella continuità dello stile.
La cifra visiva di gran parte delle sequenze che formano la pellicola sono infatti le saturazioni cromatiche, le basse temperature colore, le sovraesposizioni brucianti, le sovrimpressioni caotiche, la grana grossa degli effetti analogici, per non parlare dell’uso delle lenti: un uso in certi casi distorto quasi allo stremo, che lascia campo aperto alle aberrazioni ottiche.
Parliamo dell’effetto oblò delle occasionali sfocature a bordo immagine (operate, hanno confermato Alex e Piotr, in fase di postproduzione), e che da lontano ricordano un analogo e ben più sapiente uso della distorsione del fuoco, un uso caleidoscopico, quello del Reygadas di Post Tenebras Lux.

Nel momento in cui il frastuono della ribellione trova riposo in un immaginario passato, meno distorto della dimensione temporale presente; a partire da qui intercorrono immagini famigliari il cui ricordo nostalgico provoca un aumento della temperatura colore, arricchendo l’immagine di torni freddi, lasciando spazio alla definizione del digitale, tagliente, silenzioso, la vera lama che rende la visione «una baionetta che squarcia i tempi moderni», come asserisce il comunicato stampa di SIKSA sul film.

Dalla quinta scena riprende inesorabile la pseudo narrazione con l’ennesimo pseudo videoclip. Qui c’è sovraimpressione di un bianco e nero slavatissimo a ridosso di colori esagerati dalla postproduzione, strizzando inevitabilmente l’occhio all’estetica dei videotape low budget anni ’80.
Si tratta di scelte estetiche, senz’altro, che pure finiscono per rivelarsi comodi espedienti, presumibilmente involontari, per mascherare il dilettantismo di alcuni degli interpreti – ricordiamo l’abbondante ambulante della prima sequenza – come pure una certa, episodica inesperienza del montaggio.
Altro dettaglio che denota il pregio dell’opera contro l’inesperienza oltremodo ostentata da molti autori autoprodotti e ignorata da buona parte di pubblico compiacente è l’utilizzo di un bianco e nero digitale calibratissimo, con una resa della luce spesso azzeccata, e dalla pasta morbida da confondersi a tratti con quella di una pellicola di qualità.

Come già si notava, il rimando audiovisivo al modello del videoclip è costante, e lo è anche e soprattutto quando si affida al piano sequenza a mano libera il compito di raccontare la storia.
Eppure, in una vicenda di ribellione frustrata, urlata e compiuta, la camera che indugia sugli atteggiamenti, sulle fugaci apparizioni dei personaggi senza mai calmare il proprio fiuto esplorativo, che mappa come segugio lo spazio palmo palmo, sembra il migliore compagno visivo possibile della colonna sonora in questo cine album. Volendo sbilanciarsi gratuitamente, la scelta della camera a mano, se saputa gestire (e SIKSA pare saperlo), permane la soluzione spesso preferibile, nella volontà di rendere l’autore ben presente nel movimento dell’occhio cinematografico.

Nella scena del pranzo di famiglia in cui gli strani atteggiamenti di Alex a tavola paiono passare in sordina, ci è dato udire un dato rumore, il rumore di una pala sotterrare qualcosa, ed è perfino troppo facile capire che cosa. Ma a chi appartiene il cadavere? La domanda rimane impressa e irrisolta nell’interrogazione inconscia dello spettatore, prima di venire spezzata, di nuovo, dal fragore della sequenza successiva che ne offre risposta.
La risoluzione fornitaci senza possibili seconde interpretazioni dalla scena seguente, quella dell’incontro sul ring, si lega nuovamente a una delle tracce dell’album di SIKSA e, forse, si tratta della scena più emotivamente sentita dell’intero lungometraggio.
Il riferimento qui è tutto alla vicenda biografica di Alper Sapan, obiettore di coscienza e anarchico turco deceduto nel bombardamento di Suruc, e che la stessa Alex aveva invitato a trasferirsi in Polonia per sfuggire alla legge del suo paese. La scena in questione – per caso o perché forse proprio la più sentita – pare la meno riuscita di tutto il film. Si soffre parecchio l’eccesso di didascalismo da parte degli autori, l’impiego rasoterra di ritrite metafore visive – la ferita aperta sul corpo di Alex, da cui gli avversari sul ring cercano di nutrirsi, e ancora i lottatori stessi che impersonano diverse nazioni dell’est mentre si preparano minacciosi ad affrontare un Alper Sapan già defunto. Insomma, un insieme di allegorie di infima categoria che fanno registrare alla sequenza un record di infantilismo.

Eppure si ha poco da contestare alla pellicola. Al limite potremmo osservare che si soffre un po’ la scontata curiosità della camera nei confronti di una bambina che ricorda una Alex in miniatura, intenta in giochi circensi; mentre, in parallelo, una ballerina si esibisce tra le strade di un sobborgo e qui, in particolare, le riprese sfiorano il gusto estetico dozzinale del filmino delle vacanze.
Nulla di più negativo si potrebbe recriminare a un’opera che senza sforzi riesce a catalizzare le pupille, per una sola ora, e il pensiero, per i giorni seguenti.
La ringstruktur trova compimento e come con il consumo il viaggio filmico aveva mosso i propri passi un’ora prima, di nuovo nel consumo il viaggio trova meta; non più del solo oggetto, ma di Alex e Piotr stessi.
Un ragazzo che viaggia sopra una banana board vestito da banana, incappucciato come un adepto del Klan, assiste a un’esibizione live di SIKSA, fatta sbucare da dietro il telone di un camion nel quale veniva tenuta chiusa assieme a Piotr. Una volta terminato, i due autori vengono freddati a colpi di pistola dallo stesso camionista. Titoli di coda.
A stento avrei scommesso, seduto nella mia settima fila centrale, che potesse trattarsi di più di un bel qualcosa o, addirittura, di una vera opera. Ad ogni modo qualcosa a cui potrete assistere, se ne avrete occasione, chiusi al buio di una sala, e non sul divano di casa dato che, per scelta stessa degli autori, la pellicola non verrà rilasciata in streaming.




