“Il vero pericolo è che se ci abituiamo ad ascoltare troppe menzogne diventeremo incapaci di distinguere la verità”. Questa frase pone immediatamente al centro della narrazione della serie il concetto del vero e di come la mancanza di lucidità derivata dall’assuefazione alle bugie inevitabilmente condusse alla tragedia.
Mancano pochi minuti all’una e mezza di notte a Pryp”jat’, 26 Aprile dell’86, in una delle case dormitorio, sorte attorno la centrale nucleare V.I. Lenin di Černobyl’, l’insonne Lyudmilla Ignatenko (Jessie Buckley) sta preparando un caffè in un modesto cucinotto. Riflessa nel vetro della finestra vediamo il comignolo della centrale dal quale appare un lumicino, improvvisamente divenuto bagliore fino ad espandersi, simile ad una sfera. Poi il boato. Il rintocco dell’orologio del destino.
Seguono spoiler su Chernobyl
Chernobyl, la nuova serie HBO in collaborazione con Sky, mostra cinque lezioni di anatomia della tragedia, non è un viaggio facile da vedere, ancor meno da accettare, è potente, è angosciante. Conosciamo la storia, il fato dei protagonisti ancor prima che ci venga mostrato, sappiamo anche l’epilogo della trama – mostratoci durante la prima puntata. Eppure siamo incollati allo schermo, vittime o esempi di due concetti cardine del cinema hitchcockiano: la suspense generata secondo il maestro quando lo spettatore sa già qualcosa che i protagonisti devono ancora scoprire; il lato “macabro” della vicenda, nonostante siamo permeati dal perbenismo, attira in quanto il male in tutte le sue forme è irresistibile.
Ma è proprio l’esperienza di rivivere il tutto o di vedere resa in maniera magistrale ciò che ha potuto leggere, al massimo sentire spiegata da qualche documentario, è il vero segreto che rende efficace la serie. Questo è il cinema, in questo caso la televisione, non solo d’intrattenimento, ma di insegnamento, l’arte più solenne.
Ed allora in Chernobyl si intersecano storie su più livelli: quelle dei cittadini, pervenute la maggior parte dalle testimonianze dal libro “Preghiera per Chernobyl” di Svjatlana Aleksievič, come la già citata Ludymilla e il suo disgraziato marito pompiere. Glukov il capo minatore. Pavel il ragazzo assegnato a servire come liquidatore. L’anziana contadina costretta ad essere sfrattata dalla sua fattoria e i cittadini intenti ad ammirare il barlume bluescente della centrale, ignaro che fosse dovuto alle radiazioni. Ma questa serie non avrebbe raccolto i suoi consensi senza i suoi tre mattatori e le loro storie.
Spicca Jared Harris (Mad Men, The Terror e The Crown), che con un recitazione limitata a pochi, spesso impercettibili movimenti incarna tutta la sapienza, la fragilità di Valerij Legasov, lo scienziato chiamato a dare la soluzione al problema. Soprattutto Harris riesce a rendere l’amara risolutezza dell’uomo, conscio spesso di chiedere ai suoi uomini di “suicidarsi” pur di evitare il peggio. Al suo fianco il sorprendente Stellan Skarsgård (saga Thor e Avengers) nei panni di Boris Shcherbina, messo a capo dell’operazione Chernobyl da Gorbaciov in persona, fedele uomo di Stato, profondamente russo e dal profilo impassibile, si accorgerà come il mondo in cui credeva e che serviva si sta sgretolando. Infine Emily Watson e la sua fisica Ulana Khomyuk, unica concessione a romanzare la vicenda, rappresentate di tutte quelle donne che si sono impegnate in prima linea per arginare l’arginabile.
Chernobyl trova l’equilibrio tra la sua potenza nel raccontare l’evento e la memoria storica, riesce a coinvolgere il pubblico, in un dramma conosciuto, unendo alla recitazione tutti gli elementi della settima arte. La colonna sonora, non c’è, non quella classicamente intesa. I rumori ora assordanti, ora stridenti della centrale, la cantilena delle sirene, le lacrime delle vittime, lo scricchiolio dei contatori Geiger saranno le musiche, oppure i silenzi dinanzi alla desolazione o ai panorami fissati da ignari cittadini che non ignorano di ricevere migliaia di pallottole invisibili ogni secondo che restano a Pryp”jat’.
La fotografia indugia spesso su oggetti, ambienti, particolari insignificanti, fino ad accorgervi che stanno inquadrando l’assassino. L’atmosfera è sempre soffocante, opaca, mai un raggio di sole, mai un colore, mai uno spasmo di luce in nessuno dei più di trecento minuti, una fotografia spenta forse citazione stessa della cinematografia russa del periodo sovietico.
La vicenda, reinterpretata (poco) da Craig Mazin e diretta da Johan Renck, è distante dal voler rendere l’accaduto apologia dell’eroismo che tanto aspettava un certo tipo di pubblico. Si avrà invece la rilettura storica, non con la caccia al colpevole, ma con la critica degli errori, dei limiti, del sistema dai quali emerge l’orrore, diretta conseguenza. Non un isolato reo, ma tutti colpevoli di tenere su la cortina di ferro, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Chernobyl mostra l’URRS, un mondo andato, perduto, pronto ad ogni cosa per tenere su la sua maschera temibile agli occhi dei nemici, “amici” e confinanti. Non si può mostrare nessuna crepa, ciò che era rosso era perfetto, una defaillance mostra debolezza, crea opportunità per altri. Il Comunismo, ecco, non poteva sbagliare. E quindi i suoi cari lavoratori non rischiavano a rimanere intorno al focolaio nucleare, non ci sarebbero stati morti, radiazioni, quella sui tetti della centrale non era la grafite del nocciolo, perché i noccioli sovietici non possono esplodere.
Se, dopo un paio di giorni scarsi, gli svedesi per primi non avessero captato le radiazioni dell’esplosione probabilmente avrebbero tenuto per sé l’evento chissà per quanto. Il disastro di Chernobyl solo in Unione Sovietica poteva accadere, ma è anche vero che solo in Unione Sovietica si sarebbero trovati martiri pronti a sacrificarsi per bonificare il sito. I tre sommozzatori, i minatori, i pompieri, il socialismo spronava i suoi proletari a credere di servire lo Stato al di sopra sempre della propria vita. Lo Stato fu causa e lo Stato fu soluzione, se così si può definire.
Ma questa che fu la più grande catastrofe dettata dall’uomo su questo pianeta, fu il primo rintocco che annunciava la fine dell’URSS. Portò per la prima volta i suoi cittadini a bramare la verità, a rivelarla al mondo, a scavalcare lo Stato e fare ciò che era giusto per il popolo e non per il partito. La verità che pur se celata, o invisibile a pochi, mantiene una delle sue peculiarità: è immutabile, se ignorata può essere messa da parte ma sempre pronta a essere divulgata, difficile da mistificare, come ci insegnerà Legasov. Inoltre l’ultima lezione, per quanto nella seconda metà del novecento il blocco occidentale e quello sovietico si arroccassero per mantenere in piedi confini, la tragedia dimostrò che un problema di una nazione non era più un problema isolato.