L’astronauta/botanico Mark Watney (interpretato da Matt Damon) è rimasto su Marte, solo ed isolato da altre forme di vita. Ha una scorta limitata di provviste, che, se ben razionalizzate, lo faranno vivere per più di un anno; dopodiché morirà.
L’ansia ed il senso di oppressione giungono immediatamente nei pensieri del nostro astronauta. Non c’è nulla da fare. Prima o poi morirà.
Ma ecco che dopo queste prime, naturali, incertezze, ecco che vengono pronunciate le fatidiche parole: “Io non morirò qui”.
Il film si chiuderà con la celebre hit del 1978 I Will Survive di Gloria Gaynor. Questa canzone, dal titolo abbastanza esplicativo (Io sopravvivrò) racchiude nelle orecchiabili note che la compongono l’intero senso del film: la determinazione e la voglia di sopravvivere.
Nel caso specifico della canzone il testo fa riferimento al cuore spezzato di una donna, chiamata a rimettere insieme i pezzi della sua anima e a cercare, quindi, di andare avanti.
Cosa succede a Mark Watney? Anche lui è stato abbandonato, pur non essendo colpa di nessuno, ed anche lui è chiamato a sopravvivere e a tenere duro. Ma in realtà Mark fa qualcosa molto più importante che sopravvivere; lui, infatti, inizierà a vivere.
Mark segue l’esempio di I Will Survive, che non rappresenta un inno al dolore, ma alla vita. Mark avrà una vita su Marte, e sua volta riuscirà a crearne altra; grazie alle sue conoscenze da botanico, infatti, Mark riuscirà a coltivare delle “salutari patate marziane”.
E cosa c’è che meglio rappresenta il concetto di vita? Una risata. E Mark questo lo sa. Quando la NASA riesce, tramite una vecchia sonda, a scattare una fotografia da inviare sulla terra, Mark è colto nel gesto di imitare la posa di Fonzie, il protagonista di Happy Days, facendo rimanere sbigottiti tutti.
L’intero film, se vogliamo, è quindi proprio questo: uno straordinario inno alla vita; il non mollare mai, non in quanto dotati di un istinto di sopravvivenza, proprio anche degli animali, ma perché siamo esseri umani e amiamo vivere.
Lo spirito che si riaccende in Mark, dopo i primi momenti di sconforto, infatti, non sono quelli del botanico o dell’astronauta, ma sono quelli dell’uomo, inteso come appartenente alla specie umana.
Solamente un uomo, infatti, proprio grazie a tutte le sue imperfezioni di essere umano, avrebbe potuto affrontare una simile situazione.
Questo è, dunque, il grande messaggio del film. Una pellicola antropocentrica, che mette l’uomo in primo piano. I compagni di Mark, infatti, pur di tornare indietro per salvare il loro amico entreranno nell’illegalità, venendo meno ai loro doveri dettati dal proprio lavoro, ma non a quelli dettati dal loro spirito e dalla loro coscienza.
Un film che, quindi, valorizza le imperfezioni e le rende ancore di salvezza a cui aggrapparci, come del resto faceva anche I Will Survive.