Non serve scomodare Nietzsche per assumere l’importanza che la musica ricopre nell’esistenza dell’umanità di oggi e quella che verrà, e tanto meno non devo essere io a parlarvi di come la commistione tra musica e arte cinematografica abbia fatto la fortuna di tante pellicole che hanno lasciato il segno, citando i vari Kubrick, Leone o il Mike Nichols de Il Laureato. Eppure ci sono canzoni che sembravo fondersi perfettamente con il cinema più di altre, e forse in questo fenomeno c’è una visione più grande di quella che le parole possono descrivere; una visione che si manifesta con sensazioni emotive, fisiche e psicologiche, che trasportano la mente del fruitore in una dimensione altra di impossibile catalogazione. The fairest of the season è una traccia emblematica della carriera di Nico, musa e femme fatale dei Velvet Undeground come di Warhol, allo stesso tempo figlia del tumulto newyorkese di fine sessanta e la durezza dell’est europa in pieno secondo conflitto mondiale.
C’è una leggerezza drammatica fin dall’inizio, con quell’arpeggio elettrico in fibrillazione e gli archi che arrivano a cogliere le sfumature più amare di un testo che scivola via con una struggente delicatezza, e in questa visione è impossibile non agganciarsi a quel piccolo gioiello cinematografico di Restless, partorito da una mente altrettanto geniale e versatile come Gus Van Sant. E mai come in questo caso, il testo sembra parlare dei giovani Enoch e Annabel, fin dalle prime battute: Now that it’s time / Now that the hour hand has landed at the end. In due semplici frase, ecco il mondo narrativo dell’intera pellicola, che vive di esistenze flebili e candide, incubati nello spettro di morte e malattia, incurabile e allo stesso tempo salvezza per entrambi. Due anime lontane, tenute insieme da un filo rosso che non si spezza nonostante le recriminazioni, tra la paura di essere e quella di lasciar andar via, tra la consapevolezza di un destino più grande di noi come dice Annabel (le nostre vite sono solo un puntino sulla linea del tempo) e una rassegnazione a capire questo disegno.
Come il cambiare delle stagioni, film e brano vanno a braccetto, alternandosi i toni umorali e visivi, con Van Sant che di per sé tende a realizzare una messa in scena ricca di colori trattenuti, mantenendo allo stesso tempo una scenografia asettica, dove il fulcro restano le due giovani anime solinghe che come una molla si prendono per allontanarsi e infine tornare insieme a tendersi la mano, mediate da corse nei prati di grano e un amico giapponese visibile solo vivendo lo spirito dell’altro. La splendida melodia che veleggia intorno, come fossero gli uccellini tanto amati da Annabel, arriva anche a dare il passo d’addio, e anche stavolta niente come le parole di Nico potrebbero descrivere tutto: And it is finally I decide / That i’ll be leaving In the fairest of the seasons.
Come la stagione più bella descritta dalla canzone, cinema e musica riescono perfettamente a coesistere, necessarie l’una all’altra come le branchie dello stesso pesce.
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