Hugo Cabret – Quando l’arte genera se stessa

Antonio Lamorte

Ottobre 14, 2019

Resta Aggiornato

Hugo Cabret.

Mio padre mi portava al cinema di continuo. Mi ha raccontato del primo film che ha visto. È entrato in una sala buia e su uno schermo bianco ha visto un razzo volare nell’occhio dell’uomo nella Luna. Gli si è conficcato dentro. Ha detto che è stato come vedere i suoi sogni in pieno giorno.

Il giovane Hugo Cabret è un ragazzino rimasto orfano del suo amato padre, un brillante inventore deceduto durante un incendio nel museo in cui lavorava. Hugo passa quindi le sue giornate nella stazione ferroviaria di Parigi, cercando di sfuggire al malefico Gustave (Sacha Baron Coen), l’ispettore di polizia che cattura e consegna gli orfani all’orfanotrofio. Hugo però fa molto di più di questo: grazie alle infinite ore trascorse con il padre, ha una grande predisposizione nell’aggiustare congegni e meccanismi. Proprio con il padre, Hugo stava lavorando ad un misterioso automa, cercando di scoprire quale segreto nascondesse dentro la sua corazza di ferro. Tuttavia serve qualcosa per aprirlo. Una chiave a forma di cuore.

Il cuore. Solamente usando il cuore si potrà accedere al segreto dell’automa e procedere in questa particolare caccia al tesoro. La ricompensa di questo “gioco” non è un forziere di diamanti ed oro, ma è un uomo. Un uomo che è sempre stato sotto gli occhi di tutti: Georges Méliès. Un uomo che ha sempre lavorato con dei marchingegni, che avevano come obbiettivo stupire il pubblico. Un mago, un prestigiatore che ha scoperto la più grande ed impressionante magia di tutti i tempi: il cinema.

La storia di Melies entra brillantemente nella pellicola di Scorsese, e coglie in particolare il suo momento più cupo e difficile: quando arrivò il buio nell’animo delle persone. Un male inguaribile che portò alla morte di decine di milioni di persone, cioè la guerra. Non c’era più spazio per trucchi di magia, per immagini che si muovevano su uno schermo bianco, per mondi fantastici che scorrevano sullo schermo attraverso  proiettore. E così arrivò l’oblio per l’estro creativo di George Méliès, costretto a vendere tutto il suo magico universo e a scomparire lentamente nell’oscurità.

Il tempo che passa e che trasforma tutto è sicuramente il centro focale di questa storia; una storia che parla, appunto, di ingranaggi, come quelli di un grande orologio. Scorsese, con questo film, effettua una profonda riflessione sul cinema, andando ben oltre la semplice citazione cinefila. Non è assolutamente un caso che questo sia il primo film di Scorsese girato interamente in digitale, nonché il suo primo film in 3D; Scorsese si serve delle tecnologie più all’avanguardia della sua epoca, esattamente come fece Méliès, compiendo una vera e propria operazione filologica per narrare una storia che, più che omaggiare il cinema in generale, ne omaggia la nascita ed il percorso nel tempo.

La maggior parte del film, infatti, si ambienta nella grande stazione di Parigi, dove possenti treni giungono e vanno ogni giorno. Il treno: simbolo per eccellenza del progresso che avanza inarrestabile. Ma il treno è anche uno dei simboli stessi del cinema e della sua nascita; la mente, infatti, va subito all’arrivo di quel celebre treno con cui i fratelli Lumière diedero ufficialmente inizio al cinema.

Ma anche l’orologio stesso, oltre ad essere il simbolo dello scorrere del tempo, diventa un elemento chiave nella narrazione del film; Hugo e la giovane Isabel, la nipote di Méliès, si recano al cinema per vedere Preferisco l’ascensore! (1923), dove Harold Lloyd rimane appeso ad un grande orologio su un alto grattacielo. Questa scena verrà riproposta più in là nel film, e vedrà protagonista Hugo che, per scappare dalle grinfie del perfido Gustave, sarà costretto ad aggrapparsi ad una lancetta del gigantesco orologio che troneggia sulla stazione.

Ed infine c’è il momento catartico della riscoperta, che avviene grazie ad una figura che Scorsese ritiene indispensabile: il cinefilo. È solamente grazie all’interesse ed allo studio del cinefilo che l’arte può sopravvivere all’inesorabile incombere del tempo; solamente grazie alla sua dedizione i grandi artisti possono essere riscoperti, come accadde proprio al grande Méliès. Scorsese è ben consapevole di tutto questo, perché, come anche i colleghi della sua generazione, è stato tra i primi a studiare il cinema del passato per proporre qualcosa nel loro presente, facendo sì che il cinema generasse se stesso.

Con l’avvento del cinematografo i fratelli Lumière stessi non avevano la benché minima idea della portata di questa arte. Anzi, neppure si parlava di arte, ma solamente di un divertissement destinato a durare poco. Così non fu, e non serve essere degli storici del cinema per affermare ciò, visto che, più di un secolo dopo, noi siamo qui ancora a parlarne. Omaggiare questa splendida forma d’arte è abbastanza comune, ma in pochi sarebbero riusciti a realizzare un’opera così pregna di significati e simbologie, capace di trascendere il tempo e di colpire al cuore.

 

Con Hugo Cabret Martin Scorsese firma una bellissima e sentita lettera d’amore verso quell’arte che l’ha reso grande; un mestiere fatto di meccanismi che si intrecciano, come i primi proiettori che uccidono il buio con un fascio di luce, un diversivo che interrompe l’inesorabile scorrere del reale con mondi immaginari e avvolgenti, un’arte che Martin Scorsese, cinefilo prima ancora che regista, ha amato ed ama con quella ferocia che solamente gli indomiti spiriti creativi possiedono.

Leggi anche: Joker e Scorsese – Arthur, Travis e Rupert

 

Correlati
Share This