RNFF: Conversazioni con Jean-Jacques Annaud

Tommaso Paris

Novembre 1, 2019

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“Penso di avere una vita molto positiva perché di natura sono un inguaribile pessimista. Se ogni cosa va male, è naturale. Se ogni cosa che va bene, è un miracolo.” Annaud

Così si presenta Jean-Jacques Annaud alla XVII edizione del Ravenna Nightmare Film Festival, uno dei luoghi più unici del panorama italiano in cui il cinema può manifestarsi nella sua autentica essenzialità, in cui la poesia naviga nelle profonde acque del lato oscuro della settima arte per poi esprimersi con una più elevata consapevolezza.

Il 30 ottobre 2019, attraverso una lunga conferenza stampa, Jean-Jacques Annaud decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed esperienze esistenziali proprie di un artista che conosce cosa ricerca dalla vita.

Questo regista di fama mondiale, vincitore del Premio Oscar per miglior film straniero nel 1967 con “Bianco e nero a colori”, ha alle spalle 40 anni di grande cinema nei quali ha realizzato importanti opere artistiche come “Il nome della Rosa”, “Sette anni in Tibet” e “Il nemico alle porte”. Annaud si rivelerà essere un uomo ancora in grado di esprimere quella pura, innocente e immortale passione per le storie di ogni tempo e di ogni luogo.

Durante la prima serata del Festival al Palazzo dei Congressi di Ravenna, nella quale è stato proiettato l’ultimo film del regista “L’ultimo lupo”, all’artista è stato consegnato il Premio “Anello d’Oro Special Edition”.

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Nella sua carriera si è confrontato spesso con romanzi molto importanti e di grandissimo successo, ricordiamo il Nome della Rosa; l’atto di scelta del libro si tratta di una ricerca oppure è una casualità, un libro che incontra per caso del quale si innamora?

In tutti i miei film, anche quelli non adattati dai libri, l’ispirazione arriva come un fulmine a ciel sereno, è quasi sempre dettata dalla passione per ciò che faccio. Potrebbe essere solo un’idea che mi è balenata in testa, ma tutto dipende cosa mi sta accadendo nella vita in quel momento. Nei film dobbiamo essere completamente avvolti dalla passione, dall’esatto momento in cui l’idea arriva e si fa concreta fino al prodotto finito. In questo senso, i libri che ho scelto sono arrivati per caso, diciamo che mi muovo partendo dai miei istinti. Mi lascio trascendere dall’ispirazione momentanea, non c’è un autentico piano o ricerca prima.

Così è accaduto con Il Nome della Rosa. Quando decisi che sarebbe diventata anche una mia storia, ho pensato che nessuno sarebbe mai arrivato a leggere il libro una volta aver visto il film, perché è estremamente complesso e intenso. Umberto Eco, del quale sono molto amico, non pensava si potesse adattare cinematograficamente, non lo pensava a tal punto che ha venduto i diritti del libro e si è comprato una volvo arancione usata. Quando ho visto che il libro continuava a vendere copie su copie, mi sono reso conto come ci fosse un problema. Preferivo adattare un libro che non è molto conosciuto rispetto a un capolavoro conosciuto a livello mondiale, mi permette di essere più libero, di lavorare con meno pressioni. Quando il film è arrivato in Italia per la prima volta avevo solo una recensione discreta e tutte le altre erano disastrose. È pericoloso girare un film basato su un libro perché la gente dirà “il film non è come il libro”; certo che il film non è come il libro! Come potrebbe?

Il film è il modo in cui ho visto la storia mentre la leggevo e ho voluto realizzarla per permettere che arrivasse a più persone. I film hanno maggiore visibilità, è un fatto della vita.

Da L’orso a L’ultimo lupo, com’è cambiato il modo di gestire questi attori-animali? Com’è cambiato il modo di lavorare in questo senso?

Lavorare con un animale è paragonabile al lavorare con un bambino. L’unica differenza è che i bambini non possono ucciderti, al contrario di certi animali. Tuttavia, le star di hollywood possono ucciderti persino più velocemente. Quando sai cosa l’animale debba esprimere per narrare la storia, allora devi fare come agiresti con attori: metterli nella giusta situazione, nella giusta ambientazione cosicché questa possa ispirare all’attore, o all’animale, ciò che deve comunicare allo spettatore. In Due Fratelli, ho lavorato in Cambogia con due tigri. A un certo punto, il racconto della storia implicava che le due tigri dovessero spaventarsi ed esprimere sorpresa, quindi ho chiesto all’addestratore di animali che cosa potesse suscitare nelle tigri questo tipo di emozioni. Bisogna mostrare loro qualcosa che non avessero mai visto, come un elefante che barrisce in lontananza. È così fu. Just one take.

Il processo di casting degli animali avviene esattamente come opero per gli attori umani. È necessario che prima costruisca il personaggio nella sua totalità, e solo dopo sarò in grado di cercare la sua degna rappresentazione nel mondo. Ad esempio, c’è stata una volta in cui avevo bisogno di un ratto molto arrabbiato, e così sono andato in uno zoo dove c’erano diversi ratti e lì ho scelto una femmina particolarmente aggressiva. Nella scelta di attori, star o ratti, bisogna scegliere la personalità che esprime al meglio la parte. È questa la magia, e al tempo stesso il rischio, del casting.

Il Cinema l’ha portata in altri tempi e in altri luoghi, permettedole di muoversi nell’arco della storia. Lei è stato nell’Africa coloniale della prima guerra mondiale, nella preistoria, nell’Italia medioevale, nel Tibet e a Stalingrado durante la seconda guerra mondiale. Ciò le ha concesso di esplorare diversi mondi, diverse epoche, diverse culture. Perché hai avuto la necessità di vivere così tante altre vite?

Ho avuto una sorta di shock verso l’inizio della storia che poi è stata la mia vita. Avevo vent’anni e, dopo la scuola di cinema, sono stato spedito in Camerun. A quel tempo non avevo il minimo interesse per quei luoghi, ma qualcosa mutò e mi innamorai dell’Africa, perdutamente. Mi ha aperto il cuore ad altre culture, altre epoche, altre modalità di pensiero. Amo vivere in nuovi luoghi, adoro scavare e andare in profondità in altre culture e identificarmi con ciò che non conosco ma che voglio incorporare, imparare e fare mio. Non sto dicendo che sono una persona migliore, ma sento di essere una persona migliore dopo aver vissuto, come ho fatto recentemente, 4 anni dall’altra parte del mondo. Mi piace cambiare prospettiva, comprendere l’Altro in ogni sua possibile forma, e ciò mi permette di avere uno sguardo globale sull’umanità e su me stesso. Inoltre, per me sarebbe davvero difficile essere un regista che realizza lo stesso film, che mostri lo stesso mondo. Mi piace muovermi nella realtà.

Non sono mai stato un monaco, non credo nemmeno in Dio, non sono mai stato una giovane ragazza scoprire l’amore nel letto di un uomo cinese, non sono mai nemmeno stato un orso. Ma amo identificarmi, anche per diversi anni, amo assumere tutto ciò che una vita è in grado di donarmi. Sono consapevole di avere incorporato qualche movimento delle mani simile ai monaci, proveniente dalla narrazione del Nome della Rosa. È un privilegio poter cambiare, muoversi, assecondare il proprio spirito.

Il suo primo film è del 1976, stasera vedremo un film del 2015. Sono 40 anni di cinema che è cambiato tantissimo. Quali sono gli aspetti che più sono cambiati in termini di linguaggio filmico?

Ciò che non è mai cambiato è che ho sempre realizzato film in cui credevo. Oggi, però, si è evoluto il modo in cui lo spettatore guarda il film. Sappiamo che per quanto un film al cinema possa essere un successo, avrà sicuramente più ascolti in televisione. In questo senso, è necessario adattarsi, quindi devo girare in un modo diverso rispetto a come facevo prima. Adesso, addirittura, bisogna pensare come il tuo film possa essere visto sullo schermo di un telefono, ed è necessario adattarsi. C’è sempre un elemento nostalgico, ma la società si evolve e a me piace accettare la sfida. Mi piace essere stimolato da come la vita cambia. Possiamo dire come io approfitti dei momenti in cui il cinema si muove, poiché l’evoluzione e il movimento sono fondamentali per creare la mia corrente personale.

In un film quanta importanza da alle parole rispetto all’immagine?

Penso che la parte più importante sia l’emozione che viene veicolata attraverso i diversi mezzi del cinema. Le parole in sé non sono in grado di creare il cinema. Il cinema è, innanzitutto, immagine in movimento; infatti, nasce muto e poi viene aggiunta la musica. La pura visione dona l’essenzialità del cinema. In un dialogo, più che le parole, è importante la storia che esiste tra i due personaggi che parlano.

Che consiglio si sente di dare ai giovani autori che si accostano al mondo del cinema?

La mia storia ebbe inizio una volta uscito dagli studi, e da quel momento non mi fermai mai di lavorare. È un tipo di vita che ti condanna a subire tanti colpi, spesso negativi, ma la realtà è questa e la ricetta non può che essere una totale e incondizionata determinazione. Per quanto mi riguarda, ho passato la mia vita a confrontarmi con altre persone sui miei film, persone che instauravano dubbi sulle mie idee, poiché, secondo loro, nessuno si sarebbe interessato alla storia di un orso, di due tigri o di un uomo preistorico. Eppure, alla fine, ho fatto bene a credere nei miei progetti. Per esempio, il mio primo film fu un flop, ma poi vinse l’Oscar.

Quello che posso dirti io è di fidarti dei tuoi istinti, di lottare per le tue intuizioni. Molte persone potranno dirti come nessuno è interessato alla tua idea, ma se credi nella tua storia, se è sincera ed esprime tutto te stesso, allora stai seguendo la strada giusta.

 

 

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