Dopo otto anni dal suo debutto sul canale via cavo FX e innumerevoli stagioni tra il successo e il fallimento, American Horror Story è ormai giunta alla sua nona stagione, e presenta elementi narrativi e creativi saturi e ripetitivi, che nonostante possano accattivare, adesso sono lontani dalla potenza emotiva delle prime stagioni.
L’idea antologica della serie, che alterna narrazioni più fantascientifiche ad alcune più ancorate ai terribili fatti di cronaca della storia americana, resta un punto di forza dello show perché in questo modo schiere di spettatori possono avvicinarsi alla storia senza avere visto i precedenti episodi.
Inoltre, l’alternanza e la rotazione dei membri del cast fornisce la giusta quota di familiarità, senza scadere nell’assurdo perché in maniera originale i ruoli dei personaggi vengono scambiati flessibilmente, e i migliori come Evan Peters e l’immortale Jessica Lange eccellono in quest’arte, facendo spiccare i loro ruoli all’interno della serie.
Alla luce di queste valutazioni generalmente positive, dunque, da cosa deriva il titolo negativo e la sensazione che questo sia un articolo di critica?
Sostanzialmente deriva dal riconoscimento del fatto che a stancare non è la stagione in particolare o l’idea specifica, quanto il concetto di American Horror Story in senso ampio, che ha perso molto del suo passato appeal.
Concretizzazione sbagliata di un’idea

Ryan Murphy e Brad Falchuk sono showrunners geniali e prolifici, che senza dubbio hanno messo in piedi una struttura narrativa coerente e senza precedenti, perché da un lato anno dopo anno producono storie antologiche più o meno verosimili connesse all’orrore; dall’altro talvolta riescono a intrecciarle tramite crossover molto ben costruiti, come quello tra la seconda e la sesta stagione.
Riguardo alla scrittura, la costruzione dei personaggi lascia un po’ a desiderare, e tranne alcune eccezioni molto spesso la caratterizzazione non è per nulla tridimensionale; l’impressione è che molti dettagli potrebbero essere analizzati e approfonditi molto di più, ma un po’ per pigrizia e un po’ per privilegiare l’aspetto horror (ormai semplicemente violento e sanguinolento cringe), vengono lasciati da parte e abbandonati a se stessi.
Il legame che ho con lo show è storico e continuo ad apprezzarla nonostante tutto, ma non posso fare a meno di notare che tra il piano virtuale e quello reale di un’idea è presente una distanza abissale, che stagione dopo stagione non fa che allargarsi inesorabilmente, perché l’urgenza di accumulare plot twist di episodio in episodio risulta palese.
Gli elementi perturbanti che oscillano tra la qualità di umano e disumano coinvolgendo storici serial killer con una precisione psicoanalitica piuttosto che storica, dove emergono dottori folli e giornalisti pronti a tutto per un po’ di successo, continuano a essere fattori affascinanti che mi tengono attaccato allo schermo puntata dopo puntata, ma a questo punto della produzione li avverto come marginali rispetto ad altri, contenuti più trash che strizzano l’occhio alla cultura americana mainstream, voltando le spalle alle antiche verità psichiche negate che lo show faceva emergere.
Analizzando in particolare la nona stagione appena conclusa è possibile riconoscere alcune lacune delle quali ho parlato qui, nella misura in cui episodio dopo episodio ho preso consapevolezza degli elementi che mi piacevano e di quelli che non mi piacevano, e confrontandoli con le passate stagioni ho notato delle dinamiche in comune.
Camp Redwood: un loop degli anni ’80

SPOILER ALERT
Nel 1970 quattordici giovani vengono assassinati in un campeggio vicino Los Angeles, e a essere accusato degli omicidi plurimi è Benjamin Richter, il custode del posto, un emarginato sociale.
L’unica sopravvissuta è Margareth Booth, la “final girl” che si prende la ribalta, che in seguito riaprirà il posto nel 1984, anno principale degli svolgimenti della nona stagione di American Horror Story.
Nel frattempo, Richter è chiuso e torturato in un manicomio. I protagonisti della narrazione sono i capigruppo che dovranno gestire i ragazzi durante l’estate dell’84, una fiammeggiante era per gli States, sulla scia dell’aerobica, della diffusione del Rock e di Billy Idol, del cinema e delle nuove mode.
Il problema è che dietro l’apparenza colorita e ideale di questo periodo, si celano una serie di oscuri, brutali intrighi.
La presenza dell’illusione e dell’inganno architettato da Margareth Booth, vera villain della stagione, era il punto più forte di questa storia; al di là della presenza verosimile di Richard Ramirez, Richter e altri killer, la sua scaltrezza è un elemento trainante.

Il male che governa il posto apparentemente bucolico risale a vent’anni prima, quando una donna sterminò tutto il personale del campo perché a suo dire colpevole della morte del suo figlio prediletto, il piccolo Bobby. Quella donna era la madre di Ben Richter, e il suo dolore ha maledetto Camp Redwood: dopo di lei, tutti coloro che muoiono su quel suolo ritornano come fantasmi.
In American Horror Story la dimensione surreale e metafisica è sempre stata presente, ma tramite l’introduzione di sataniche forze oscure è diventata preponderante soprattutto nelle ultime stagioni, solo che adesso mi ha dato l’impressione di essere utilizzata come Deus Ex-Machina capace di risolvere ogni questione paranormale.
Le vittime dei killer restano come fantasmi, e la serie resta focalizzata sulla loro dinamica di gruppo e sulla loro redenzione, che seppure abbia elementi positivi e romantici, resta fragilmente costruita rispetto alle vette di malvagità che lo show aveva raggiunto in passato.
L’assenza di Jessica Lange a mio parere è pesata molto, e sebbene Emma Roberts e Billie Lourd siano volti ormai noti, da sole non riescono a reggere il peso del confronto con Asylum, Coven o Freak Show.
Per questo motivo è con piacere che ho letto online che nella decima stagione i volti storici torneranno, e a quanto pare si tratterà di una storia esplosiva, ma d’altro canto mi auguro davvero che si tratti dell’ultima di uno show che ha fatto storia, saturando tuttavia ogni possibile spazio con la trasformazione della paura e dell’angoscia nella mercificazione degli stessi.