La menzogna è come un abito indossato al fine di nascondere la propria natura. Più abiti si indossano, uno sopra l’altro, più difficoltà avranno gli altri a intravedere quello che ormai è un ricordo scolorito del corpo che fu. Il talento di Mr Ripley (1999), pellicola diretta da Anthony Minghella, mostra come una menzogna ben costruita possa ingoiare completamente la “troppo semplice” verità.
Tom Ripley (Matt Damon) è un po’ come Nemo Nobody: la loro vita ha una natura molteplice. I due si perdono nelle loro esistenze parallele, anche se ovviamente cambia il senso in cui lo fanno. Tom si appropria di vite altrui e vive questa esperienza in senso pragmatico, ma svalutando così la propria di esistenza. Nemo abbraccia le diverse realtà, frutto di scelte differenti, godendone pienamente perché «ognuna di queste vite è quella giusta» e ha lo stesso profondo significato.
Il talento di Mr Ripley è il trionfo della pragmatica sull’ontologia di Mr Nobody (2009), la vittoria dell’arguzia sulla poesia.
Il protagonista della pellicola non è mai schiavo delle proprie bugie né queste lo sopraffanno, neanche quando le vicissitudini si complicano. Sembra che Tom sia a suo agio nel mentire e indirizza quelle bugie sempre verso un determinato obiettivo: la menzogna ha sempre un ordine interno, che non lascia spazio al caos.

Il talento di Mr Ripley
Solitamente la bugia trascina il suo ospite in un vortice caotico, dove questa si riproduce come un virus, infettando l’intero organismo al punto da comprometterne la dimensione sociale. Accade così che una falsità – magari anche ingenua –, fine a simulare oppure a dissimulare qualcosa, debba venir giustificata successivamente con un’altra, e poi un’altra ancora. Si crea un circolo vizioso dove non c’è più posto per la virtù dell’onestà né per il senso del vero.
Poi c’è Tom Ripley, un abile prestigiatore della menzogna. Indossa un sorriso fintamente ingenuo che cela tratti fortemente narcisistici della personalità, accompagnati da istinti manipolatori. Certamente lo spettatore può avere l’impressione che il protagonista sia talvolta a un passo dal baratro della verità, ma c’è un motivo se non cade mai.
Tom ha il controllo sul virus della menzogna, come se fosse completamente in simbiosi con lui. Detto in altri termini, è come se lui stesso vivesse in simbiosi con le vite altrui, finendo però col consumarle, per poi passare a un nuovo ospite: questo è il talento di Mr Ripley.
Non sarebbe insensato dire che si tratta di un personaggio anti-pirandelliano, agli antipodi rispetto ai protagonisti de Il fu Mattia Pascal e di Uno, nessuno e centomila. Se i personaggi pirandelliani cercano invano di riconquistare la propria individualità perduta tra i giudizi di una collettività asfissiante, Tom si dà al mondo in modo molteplice, frantumando volontariamente l’unicità del proprio Io.

Il talento di Mr Ripley
Gli abitanti dei romanzi di Pirandello sono in lotta principalmente per riuscire a mantenere la propria singolarità, costantemente minata da una soggettività dilagante che rischia di sbiadirne i contorni. Tom Ripley vuole invece celarla con ogni mezzo questa individualità, offrendo un Io prismatico e facilitando così la soggettivazione di se stesso da parte dell’Altro.
Proseguendo con questa chiave di lettura, la menzogna non si muoverebbe dall’alterità – intesa come ciò che pensano gli altri di noi – all’identità, compromettendone la stabilità. Piuttosto, la direzione della menzogna seguirebbe da un’identità già resa indefinita dalla volontà di nasconderla verso un’alterità che, paradossalmente, non potrebbe far altro che accettarla come reale. Un’alterità intesa dunque come ciò che si vuole che gli altri pensino di noi.
In un certo qual modo, il talento di Mr Ripley è anche questo: controllare l’alterità.
L’effetto collaterale di questo dono è che ogni bugia si deposita sopra la propria identità, al punto da renderla invisibile, o meglio irrintracciabile, non solo agli altri, ma anche a se stessi. La verità è relegata nel lato oscuro della Luna, coperta dalla luce di una menzogna troppo abbagliante per accorgersi del buio che quest’ultima protegge.
Tom: «Lo so, mi dispiace Peter! Io sono perduto. E rimarrò chiuso in cantina per sempre, è così? Vero? Questa è la mia… Un luogo orrendo e oscuro, desolato… Quante bugie… Su chi sono io veramente! Su dove sono… E… E nessuno riuscirà mai a trovarmi».

Quando si è così bravi a nascondersi, tanto da ingannare persino se stessi, non rimane nient’altro da fare se non accettare il triste premio per il proprio talento: la più dolorosa solitudine, quella fra gli altri. Il prezzo da pagare per una menzogna così autentica è il sacrificio della capacità di poterla discernere dalla verità, tanto sono legate, ormai indissolubilmente.
Tom: «Ho sempre creduto molto meglio essere un falso qualcuno che un’autentica nullità».
Un flebile dubbio si adagia sul finale. Se, cioè, ne sia valsa la pena di sacrificare la propria vuota esistenza, riempiendola con il peso del falso per renderla meno leggera e, in un certo senso, non lasciarla scappar via.
Ma non ha più importanza ormai, perché il virus della menzogna, per l’ennesima volta, ha fatto il suo (de)corso e ora avrà bisogno di un nuovo ospite di cui nutrirsi. Che quello delle bugie sia un sistema ordinato o caotico non ha rilevanza, dal momento che se ne rimane comunque intrappolati.





