This Train I Ride è uno dei film in concorso nella sezione internazionale dell’ultima edizione del Biografilm Festival di Bologna, per quest’anno straordinariamente in streaming. Ultimo documentario realizzato dal regista Arno Bitschy, che ha provato a seguire e raccontare la storia di tre donne alla ricerca della propria dimensione e libertà. Saltando di treno in treno, attraversando l’America in solitaria, sfidando buona parte delle convenzioni che le vorrebbero rinchiuse in una casa o in una maternità. Le storie che si avvicendano sono profondamente diverse ma, in qualche modo simili; ciò che le accomuna è un senso di ribellione e, al tempo stesso, un amore profondo per la natura e l’umanità. Desiderio bruciante che anima la loro fuga.
Saltare su un treno per una meta sconosciuta può dare una sensazione al tempo stesso di libertà e annichilimento. Di fronte alla bestia di acciaio che corre impazzita su una strada ferrata, nel mezzo della foresta, ci si sente totalmente liberi e al tempo stesso annichiliti. Una sorta di titanismo in movimento, viaggiare nel ventre della bestia, sperando di arrivare indenni da qualche parte. Etichette, modi, convenzioni, tutto si sfuma sullo sfondo di un paesaggio incontaminato. Lontano dalla presunta civiltà, tutto assume una prospettiva diversa, nuova. Si ridimensionano le priorità e le scadenze, mentre si sfreccia tra gli alberi e la neve, col sottofondo di una canzone che grida: This Train I Ride.
Christine è un riccio. Chiusa su sé stessa, usa gli aculei del suo carattere schivo per proteggersi. Nutre una naturale diffidenza, che a tratti sfocia nella paura, verso gli altri. Lo stesso Arno, il regista di This Train I Ride, è tenuto lontano, trattato come un intruso. Non parla volentieri alla camera, non le piace farsi inquadrare; preferisce che le parole fluiscano come un fiume, come quel treno stesso su cui cavalca il mondo. L’unico momento in cui si abbandona, è per leggere alcune regole semplici, di distanza e salvaguardia, rispetto a un mondo patriarcale e maschilista, che lei percepisce come un pericolo, per la sua incolumità fisica, ma anche per l’incolumità dei suoi sogni, troppo spesso vittime di etichette e stereotipi.
Per non impiccarsi a quelle etichette che la volevano ragazzina debole e obbediente, Christine è saltata su un treno la prima volta. In bocca il sapore amaro della disperazione, ha scelto tutto quello che le convenzioni le proibivano: di diventare saldatrice e di girovagare sui treni merci. Solo all’addiaccio, in balia degli eventi, si sente davvero viva. Ricorda un po’ Jack London, mentre rincorre i Wobblies in giro per l’America, alla ricerca di storie come tessere del mosaico della natura. Anche lei cerca la natura, crudele e incontaminata.
Circondata da scintille, come una stella cometa, che brucia il suo stesso nucleo per risplendere contro il nero del vuoto assoluto. L’amore per quella luminosità irresistibile l’ha spinta a diventare saldatrice e la necessità di rimettere in discussione una scala di priorità, troppo pressante, ma anche svuotata di ogni senso, l’ha portata sulle rotaie. Lo ammette lei stessa, quando sei su This Train I Ride tante preoccupazioni non esistono più. Tutto si riduce all’essenziale, al cibo e alla sopravvivenza, e finalmente si impara ad apprezzare il gusto dell’effimero in tutta la sua magnificenza. L’ebbrezza della natura nella sua spietatezza, che corre a perdifiato verso il nulla.
Karen invece è molto più espansiva, lo si nota subito. Non disdegna la telecamera, non si nasconde e non marca il territorio con il regista. Si lascia andare e racconta delle sue vicissitudini molto volentieri. È una donna in fuga, dal suo dramma familiare, dalla vita del sobborgo, così anonima e schematica. La giovane età non ne scalfisce l’intento, deciso e determinato. È andata via di casa molto presto, e ora riprende la strada dopo aver passato un po’ di tempo a Santa Fe; il richiamo della libertà per lei è troppo forte.
Come un salmone che risale la corrente per ritrovare le sue radici, lei corre in controtendenza rispetto al mondo. I suoi coetanei hanno fame di strade affollate, luci accecanti e vite patinate; lei invece preferisce il rombo del ferro che cozza su sé stesso, il gelo della brina mattutina sul sacco a pelo e la compagnia di qualche sparuto hobo incrociato per caso. Anche se, le pesa la solitudine, la sensazione di correre in cerchio, senza mai costruire nulla di duraturo. Una relazione, o una vita. Non vuole una famiglia come la sua, basata su lavori odiosi e piccoli dissidi, ma ne desidera ugualmente una.
Impossibile conciliare la sua innata voglia di sfuggire alla realtà, con una famiglia che di realtà ne ha fin troppa. La giovane Karen si inserisce in This Train I Ride dopo aver affrontato il dramma della droga, dopo aver cercato nell’ebbrezza stupefacente di altri stati di coscienza la strada per annichilire quel borghesissimo status da sobborgo. Ma nel suo profondo è consapevole di girare in tondo, che questa dolce fuga non potrà durare per sempre; non ha mai tagliato il cordone ombelicale che la lega alle sue origini.
Alla fine accetterà un lavoro come hostess. Salvaguarda l’illusione di viaggiare, di visitare nuovi posti, passando da un aeroporto all’altro, da un albergo all’altro; indossando una divisa, standard e omologata, attraverserà centinaia di non-luoghi per coccolare la bugia di una vita diversa. Di fronte alla natura incontaminata, tagliato ogni ponte e legame, si è scoperta forte e capace di portare avanti una vita dura, come quella della Hopper. Ma al tempo stesso, si riscopre debole, mortale, effimera. Incapace di sopportare il freddo del sacco a pelo, senza una dolce carezza che possa lenirne la solitudine.
Ivy sembra pacificata. Arno la incontra quando ormai sembra aver abbandonato i treni, le rotarie, l’ignoto. Ora fa la pittrice, si occupa di gentrificazione, prova a lenire le ferite degli ultimi; un po’ cantando, un po’ facendo parte di percorsi di recupero. È ben felice di raccontare la sua esperienza; crede che per uno spettatore ideale, guardare This Train I Ride possa aiutare a comprendere una scelta, quella di saltare su un treno rischiando la vita e la galera, sfidando la legge e le ragioni. Negli occhi porta il segno della necessità, del bisogno economico, fisico, sentimentale; figlia della violenza, ha sentito l’esigenza di scappare da una casa piena di abusi e, non avendo i mezzi economici necessari per farlo, è saltata sul primo treno che potesse offrirle un passaggio.
Ha vissuto un’esistenza da nomade, spesso si è fermata e altrettante volte è ripartita; fino a stabilirsi a Frisco, in California. California Dreamin di altri tempi, quando le coste della Bay Area offrivano possibilità ad artisti e girovaghi, culla di Beat, Thrasher e artisti di ogni risma; prima che la Silicon Valley fagocitasse la poesia delle periferie hippie, dando vita a una gentrificazione urbana in salsa Hipster che lascia poco spazio a hobo e disadattati vari. Emblematico il parcheggio sorvegliato da due robot, mentre chi non ha un tetto si arrangia in una tenda picchettata sul selciato.
Per Ivy, la voce che canta This Train I Ride, il treno è un mezzo. Il peyote che apre le porte della percezione, che amplia la realtà, focalizza le priorità e aiuta a comprendere come, l’unica cosa che realmente sia insostituibile, è l’umano. Quello che lei ha imparato in tanti anni di viaggi è stato porsi un obiettivo importante, all’altezza di un percorso così importante: guarire il mondo. Lenire le ferite di chi, come lei, non è riuscita a circondarsi di presenze calorose e affettuose. Sul treno puoi fare a meno di tutto, ti basta solo avere un angolo in cui dormire, acqua e cibo quanto basta, ma non potrai mai fare a meno della tua umanità. Della tua capacità di sorprenderti di fronte allo spettacolo della foresta trasfigurata, coperta di neve.
Come un fiume, che si snoda in mezzo agli alberi, le rotaie si allungano in un percorso verso il nulla sconosciuto. A bordo del treno, Ivy ricorda Marlow alla ricerca del colonnello Kurtz; passo dopo passo, non si allontana dal mondo conosciuto per penetrare gli orrori dell’umanità. Nel folto del bosco, lì dove il sole non riesce a penetrare, Ivy riuscirà finalmente a dimenticare l’orrore; coronerà il suo sogno di fuga da quel dirt da cui è nata, insieme con sua madre, per ritrovare il suo cuore di luce. Una rotaia, la natura e il treno come unico mezzo per scavare nelle profondità dell’anima e scoprire la speranza.
Il senso del viaggio, della rotaia, dei vagoni legati in un unicum indissolubile, sta tutto in quel piccolo interludio che il regista, Arno Bitschy, si concede poco dopo l’inizio di This Train I Ride. Un concerto di musica punk, miriadi di corpi che in cerchio si urtano, si scontrano in un mix di sudori e umori vari. Una umanità viva eppur morta, in costante turbinio eppur immobile. Quel groviglio di corpi ricorda uno stormo di falene, che si agitano attorno ad una luce. Si scottano, si feriscono, alcune muoiono, ma non riescono ugualmente a provare quell’afrore autodistruttivo che le lega a quella divinità sorda, cieca e muta.
«Moi, le mauvais poète qui ne voulais aller nulle part, je pouvais aller partout».
(Blaise cendrars – prose du transsibérien)
Al contrario il treno, così indissolubile, così incapace di uscire fuori dai propri binari, ma al tempo stesso capace di toccare ogni più recondito anfratto della terra. Motore immobile dell’esistenza, il treno apre le porte di una realtà sconosciuta, ma a portata di mano. Se solo volessero, tutte quelle falene potrebbero correre via dalla luce; abbandonare l’idolo per rincorrere l’ignoto. Ma il buio fa paura, anche alle creature della notte, che preferiscono perire con una falsa luce, piuttosto che trovare l’illuminazione dentro di sé.