Selvportrett è un documentario a più mani, realizzato tra la Norvegia e la Grecia, che racconta la storia di Lene Marie Fossen; una fotografa affetta da anoressia sin dall’età di dieci anni. Il film è stato presentato, in anteprima italiana, al Biografilm Festival 2020 nella categoria Contemporary Lives, con l’intento di gettare luce sulle difficoltà e le angosce che attanagliano la modernità. Seguendo passo dopo passo gli ultimi anni di vita di Lene, e raccontandone al tempo stesso i sogni e le aspirazioni artistiche, i registi hanno voluto raccontare le paure e le speranze dell’effimero; paradigma insito nella condizione di mortalità di ognuno di noi, attraverso gli occhi di chi a quella insicurezza ha ceduto, nel tentativo disperato di fermare il tempo.
Lene Marie Fossen è sempre stata una bimba precoce. Nell’età in cui iniziano le scoperte, quando ci si fanno le prime domande, inizia il confronto con l’altro nel gioco e nella lotta, Lene già si preoccupava del tempo che scorre. Non voleva crescere, non voleva doversi consumare, giorno dopo giorno, per poi morire scoprendo di non aver mai vissuto. Voleva essere una sorta di Peter Pan, smarrita tra avventure fantastiche, in un luogo dove il tempo è immobile e i bambini sempre felici, per quanto sperduti. E in un certo senso ci è riuscita, cadendo nel pozzo dell’anoressia a dieci anni.
Dopo circa vent’anni di anoressia, Lene Marie assomiglia a una bambola di porcellana. Nelle sue foto, in quei Selvportrett del titolo, vuole mettere tutta la sua fragilità. La pelle come una velina leggera, che a stento fa da velo su vene che sembrano sul punto di collassare sotto il loro peso, avvolte attorno a un corpo che di peso non ne ha più. Gli occhi enormi, blu come l’oceano o come la notte che si specchia sul fondo del pozzo, dove da bambina è caduta rimanendovi intrappolata per sempre; quegli occhi sono forse l’ultima luce, l’ultimo faro che può ferire il buio, sguardi trascesi nell’obiettivo di una macchina fotografica.
L’obiettivo è il sole nero di Beckett, betoniera di bile nera e melanconia da cui tirar fuori la calce per costruire un palazzo di arte e dolore. Impressi sulla pellicola ci sono volti, espressioni, smorfie che raccontano storie; vite racchiuse nel solco di una ruga, nella piega di un sorriso o nei calli di una mano. Lena Marie non può avere figli, smettendo di mangiare ha bloccato il suo sviluppo restando impubere per sempre, eppure partorisce esistenze che altrimenti rimarrebbero relegate nell’oscurità. Dannati della terra abbandonati e dimenticati, troppo miseri per salire alla ribalta della società dello spettacolo; bardi in attesa di una metempsicosi che non avverrà mai.
Ha rinunciato alla vita, eppur vive in quelle foto; ogni ritratto diventa autoritratto, un “selvportrett” per esorcizzare la sua esistenza posseduta dal demone dell’autodistruzione. Come lapidi plastiche in uno Spoon River vivente, ogni foto è un romanzo. Un libro raccontato da un vecchio sopravvissuto del novecento, che su di sé porta tutto il peso di un secolo breve ma sanguinario; o impresso nello sguardo di una bambina siriana, troppo piccola eppure piena di maturo dolore. Sull’isola di Lesbo, nelle riprese di Lene Marie immersa tra i naufraghi il contrasto fisico è un abisso incolmabile; da un lato l’eterna bambina, che ha sacrificato la vita adulta alla paura, dall’altro i bimbi sperduti, che hanno visto affogare la propria infanzia nel Mediterraneo.
Lesbo, Chio, Itaca. La Grecia come culla dell’umanità figlia della tragedia; il posto ideale dove trarre fuori l’arte, suprema illusione apollinea, dal caos dionisiaco della vita di Lene. Alle strade pregne di storia di questo angolo di mondo, la giovane fotografa decide di affidare le proprie angosce e di affrontare i demoni di una vita. Trova un vecchio ospedale per lebbrosi, ormai abbandonato, e si fotografa; novella lebbrosa, il suo aspetto richiama la curiosità e il disgusto di molti, ma nel suo cuore resta immutata la forza di voler sconfiggere il pregiudizio attraverso l’arte.
Decide di costruire i suoi “selvportrett”, mentre si aggira come una presenza per le stanze diroccate; uniche ospiti di ambulatori fatiscenti, lei e la sua malattia, uniche testimoni dell’incendio che avvolge il palazzo della modernità. Di fronte alla profonda insicurezza insita nell’effimero, Lene si rifugia quasi nella malattia; compagna di vita di cui ha imparato a conoscere i lati oscuri, che non riserva più nessuna sorpresa, a differenza della vita che resta ancora ignota e imprevedibile. Vuole raccontare quel senso di smarrimento di fronte alla realtà circostante, che la porta a rinchiudersi in un bozzolo caldo di fallimenti e autocommiserazione; incapace di riconoscere la felicità di Sisifo in cima al monte del suo travaglio.
La spannung di Selvportrett prende forma proprio lì, sulla cima del monte della sofferenza che è la vita di ogni essere umano. Lene è riuscita a far venir fuori la sua arte. Ha successo, le persone apprezzano le sue foto e presto avrà una sua esposizione al Fotografica di Stoccolma, il museo fotografico più importante dei paesi scandinavi. Ma non riesce a venir fuori dal bozzolo. Ogni volta che osserva le immagini sulle pareti non riesce a capire chi sia ad avere successo: lei o la sua malattia? Persona vera o Dramatis Persona? Nessuno prende in considerazione i ritratti che ha realizzato in Grecia, nessuno vuole ascoltare le voci silenziose del tempo immobile sulla pellicola.
La calda sicurezza che le dava l’anoressia, a fronte del gelo del mondo fuori da quella porta, si è tramutata in fiamma viva. Ora quella casa che abita il suo spirito è immersa in un incendio senza controllo, ma non c’è una porta per tirarsene fuori, non riesce a trovare una via d’uscita. O abdica il successo guarendo finalmente, oppure si abbandona a quella dolce compagna lasciandole il trionfo anche sulla sua arte. Che fare? C’è solo il gelo per spegnere il fuoco, spalanca le ali di un angelo di neve per sopravvivere morendo.
La saga di Lene Marie Fossen è la storia dell’eterna battaglia dell’uomo contro i demoni che ne affollano la mente. Le immagini che si rincorrono in Selvportrett sono il reportage dal fronte della sensibilità; quella capacità di soffrire che è stata somma scuola di vita per i greci, ma che col passare del tempo è diventata un fardello insostenibile per l’uomo. Il peso della mortalità, dell’inconcludenza di fronte allo svolgersi delle epoche, di aspettative più o meno grette. L’insostenibile leggerezza del vivere in paesi occidentali, con tutti i comfort, e voler scontare ogni giorno la colpa del privilegio; in una sorta di condanna a morte esistenziale.
Lene Marie Fossen è sempre stata una bimba precoce. Da piccola si chiedeva spesso il senso della vita, della morte, dello scorrere del tempo. A dieci anni è diventata anoressica, come unica risposta all’angoscia del domani; ha fermato le lancette del suo orologio biologico, pur di smetterla di crescere non rinunciando però a consumarsi. A ventinove anni si è tuffata in quel nero pece che le cresceva dentro per non uscirne mai più. Di lei ci resta l’amore per la vita, miriadi di visi solcati dal tempo e il suo corpo. Immacolato, virginale, fragile.