Vikings – La fine di un’era

Gianluca Colella

Luglio 22, 2020

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Vikings è senza ombra di dubbio una delle serie tv più potenti e apprezzate degli ultimi anni. La fedeltà storica, le battaglie sanguinolente e la caratterizzazione dei personaggi sono i punti forti di una storia che oscilla tra fantasy e realismo, raccontandoci le gesta eroiche e funeste di grandi guerrieri scandinavi.

Su tutti, spicca sicuramente Ragnar, il contadino che si eleva a conte, per poi diventare re di Kattegat. Tratti fondamentali del suo carattere sono il carisma, la curiosità e il machiavellismo, ovvero la tendenza a giustificare i mezzi tramite cui si agisce in vista del fine per cui vengono adoperati.

Per la prima volta, è grazie a lui se i fieri navigatori norvegesi decidono di orientare le loro razzie lontano dalle coste conosciute, in mari più aperti, dove lui e le sue flotte più volte si scontrano con popoli, lingue e culture diverse.

Inevitabilmente, conflitto e integrazione camminano parallelamente, ma non senza costo: la trama di Vikings intreccia per quattro stagioni le vicende dei norvegesi e degli anglosassoni, incarnati nelle figure dei due Re Aelle ed Ecbert, che realizzano la loro vendetta sul discendente di Odino, Ragnar, non senza rimorso, non senza un po’ di timore reverenziale.

Vikings e tutti i suoi angeli

Vikings, quarta stagione. Tra giustizia, vendetta e trascendentale: la morte di Ragnar, o meglio la furia di Odino.

Vikings: la morte di Ragnar

Premessa doverosa, etica e filosofica, consiste nella grande capacità che Ragnar ha dimostrato non solo nel comandare e nel governare, ma anche e soprattutto nell’umiltà di comprendere quanto lui fosse piccolo in un mondo e in un universo infinitamente più grandi di lui.

A dimostrare questa sua qualità è il rapporto con Athelstan, il monaco cristiano che prende come suo ostaggio e che poi diventerà il suo più grande amico e consigliere, rivaleggiando con il folle Floki, vichingo fino al midollo.

Se Ragnar governa così bene, non è solo perché i suoi nemici lo temono, ma anche perché i suoi sudditi lo amano, ne riconoscono la forza, a volte non comprendono tutte le sue ragioni (spesso post-convenzionali, spesso amorali), ma se si fidano è perché sanno che le sue decisioni permetteranno a Kattegat di arricchirsi e prosperare.

Politica, religione, violenza e tradimenti sono il pane di cui Ragnar si nutre: quando invade la Gran Bretagna, quello che cerca non è l’oro; cerca sapienza, saggezza, elementi che ottiene nel confronto con quel suo alter-ego cristiano, Re Ecbert, colui che architetterà la sua condanna.

Mentre lui, Ecbert, resta giù, indossando la tunica che era stata proprio di Athelstan, Ragnar, vecchio e tumefatto, è tenuto in una gabbia sospesa sul terreno, debole e inebetito. Le truppe inglesi, comandate da Aelle, osservano la scena, crogiolandosi in quella parvenza di trionfo loro e della loro religione.

Come un corvo su una massa di furetti, Ragnar si erge solenne nella sua vulnerabilità, e letale per lo spettatore appare il modo in cui il semidio assume consapevolezza del fatto che stia per morire: nessuna tristezza, nessuna rassegnazione trapelano dalla sua voce.

È chiaro e lampante che lui rassegnato lo sia, ma da qui a renderlo evidente, di acque per i porti di Kattegat devono scorrerne; alla luce di questi vissuti, dunque, Ragnar si prende la scena un’ultima volta, rendendosi protagonista eterno della serie Vikings, che intorno a lui continuerà a ruotare anche quando lui non ci sarà più: perché la sua è una stella che brilla luminosa, imperitura, fiera e bruciante.

È al Valhalla che l'(anti)eroe rivolge le sue ultime attenzioni, alle Valchirie, a Odino e a coloro con i quali si troverà a banchettare quando il rachitico re Aelle emetterà la sua condanna.

Sì, rachitico, perché viceversa Ragnar di rachitico ha ben poco, forte della sua nietzschiana volontà di potenza, del suo devastante “Io esisto”, un fulmine che si abbatte sulle vite dei comuni mortali.

Tutti i suoi angeli sono coloro che l’hanno accompagnato lungo la via, egli li celebra in questo potente discorso, apologia dei suoi peccati, ma anche dei suoi trionfi: la moglie Lagertha, il figlio maggiore Bjorn, Rollo, Floki e i suoi figli minori, coloro che crescendo hanno potuto osservare come Kattegat prosperasse grazie all’intraprendenza del Re.

Solo vivendo, Ragnar ha potuto prendere ciò che desiderava, fare in modo che da quello più infimo al più complesso, tutti i suoi desideri si tramutassero in realtà, attualizzando ognuna delle sue fantasie, con l’obiettivo di garantire alla sua civiltà una fama leggendaria, un’eredità senza precedenti.

Infine, in questo discorso finale e suggestivo, prima che l’abbraccio dei serpenti preparato dal meschino Aelle gli sottragga la vita, il riferimento alla sua diretta discendenza non può mancare: come se destinasse agli inglesi una violenta maledizione, Ragnar ricorda loro che i suoi figli sono giovani, vigorosi e rispettati; per la vendetta della morte del padre, non è questione di ‘se’, ma di ‘quando’.

La base della gabbia infine si apre, fatalità semplice e inerziale, accompagnata dalla forza di gravità che grava sul pianeta Terra: per un attimo lo spettatore (che Ragnar lo ama) oserebbe sperare che la sua volontà di potenza sia tale da sovvertire anche le leggi della natura, permettergli di alzarsi in volo e, come un drago, sputare fuoco sui suoi nemici.

Invece no, Ragnar si rivela umano, cade come cadrebbe ciascuno di noi, muore come morirebbe ciascuno di noi. Eppure no, perché quelle sue ultime parole, proprio loro sono il fuoco che Ragnar ha vomitato prima di lasciare questo mondo. Col Veggente che osserva, cieco e onnisciente, il fato del suo leader.

Leggi anche: Vikings – Mito, Storia e Attualità.

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