La Viajante è un film in concorso allo Shorts International Film Festival, nella sezione “Nuove Impronte”. Opera prima del regista Miguel Mejias, il film racconta la storia di una donna alle prese con la perdita della madre, morta improvvisamente a causa di una malattia. La vita di entrambe procedeva quasi in simbiosi, ma Angela, di fronte alla morte, è costretta quasi a fare i conti con se stessa e con la propria vita. Dove sta andando? Chi è lei? Qual è il suo destino? Al fine di rispondere a questa, e ad altre mille domande, si imbarca in un viaggio attraverso il deserto.
Il deserto è un luogo dell’anima, più che un luogo geografico. Ci sono posti che trascendono la fisicità per tramutarsi in specchi mistici, superfici su cui osservare il proprio io, completamente messo a nudo. Per Angela è così. Le giostre del parco giochi, i palazzoni grigi, sono solo rappresentazioni finte e raffazzonate di una sorta di felicità. Si sente costretta in quei luoghi dalla relazione con sua madre, ma è così legata da non poter neanche mettere in dubbio che quello sia il suo posto. È tutto come un giro sul carosello; correre in tondo, abbagliati dalle luci e dalla musica, per avere la sensazione di muoversi, rimanendo fermi nello stesso posto.
La viajante non si sente legata a quelle luci e a quelle sensazioni, è più un senso di amore filiale che l’ha spinta a costruirsi un simulacro di vita tra quelle strade. Quando perde la madre, per un morbo sconosciuto, eppure così familiare, si sente vuota. Libera, ma completamente sola e svuotata di tutto: sentimenti, progetti, aspirazioni. Dove scappare adesso per sentirsi a casa? Ora che le luci e la musica del luna park non rappresentano il suo stato d’animo, dove rifugiarsi?
Le resta solo il deserto, come luogo dove riconoscersi arida e sola. Scappa via dalla città, per seppellire le ceneri di sua madre nel deserto e, con lei, gettare via tutte i suoi ricordi nella pattumiera. In quegli scatoloni, c’è condensata una vita intera, sotto forma di cadaveri di insetti e reportage; una vita intera dedicata all’entomologia, passione che univa madre e figlia nei loro viaggi, tra ricerche e scoperte. In quel deserto Angela decide di costruire la cattedrale del suo essere, partendo dalle sue origini, raccogliendo l’unico testimone che sua madre le ha lasciato: una vecchia cinepresa.
Così Angela diventa la viajante, intraprende un viaggio alla perenne ricerca di se stessa, attraversando quel deserto disabitato a bordo di un’auto sgangherata. È convinta di non trovare nessuno, se non insetti, sabbia e sassi; ma proprio quando ormai è convinta di dover viaggiare da sola, incrocia Miquel sul suo cammino. La vita di quell’uomo è condensata tutta in un libro di poesie francesi; le cita tutte a memoria, in francese e in spagnolo, e le utilizza per intrattenersi nelle notti solitarie e piovose.
Il loro incontro doveva essere solo una tappa sul percorso della viajante ma, ben presto, diventa il viaggio stesso. Angela ne è attratta, anche se ancora non capisce il perché. Vorrebbe cogliere il mistero di quell’uomo, saggiarne la carne e il cuore, tirarlo dentro la sua vita e la sua ricerca; ha paura del silenzio e della solitudine e qualsiasi carezza sarebbe meglio dell’aridità del deserto e dei suoi insetti. All’inizio Miquel segue Angela nella sua caccia agli insetti, ma ben presto i ruoli si invertono, e sarà la donna a inseguire i pidocchi che infestano la testa di quello spirito inquieto.
Il passo è breve, ma la distanza siderale. È la carogna, l’odore che Miquel porta con sé; la viajante lo scoprirà in un pomeriggio desolato, mentre riprende con la sua telecamera non più insetti, ma un uomo in preda agli spasmi, appeso per il collo. Angela ha un’epifania, scopre che gli uomini non sono molto diversi dagli scarafaggi che ha osservato per tutta la vita. Si agitano, si muovono, ma non riescono a uscire dal contenitore in cui sono stati relegati. Così angosciati dalla libertà da innamorarsi della prigionia; troppo legati a Thanatos, al loro profondo e inesauribile desiderio di sfidare la morte, per imparare a vivere.
Come l’impiccato, anche Miquel il professore cova il suo annichilimento. Angela vorrebbe dissuaderlo, vorrebbe colmare il vuoto della sua anima con l’Eros, con una fame sessuale e simpatica. Non le basta più l’empatia, l’osservazione sterile e relativa del dolore, dietro la sua cinepresa; cerca la sympatheia, la capacità di condividere quel fardello di sofferenze, di farlo suo e di guarirlo. Ma quella sensualità mortale è come un vortice che trascina la viajante sul fondo. Quel viaggio era iniziato come costruzione della propria identità, e sta invece diventando uno scavo verso la propria morte.
Angela decide quindi di seguire il proprio istinto, ricalcando le orme di sua madre. La sua “Ansia de Infinitud“, la brama di infinito, è una danza liberatoria; quel suo volteggio tra le diverse disperazioni che ingombrano la pista da ballo, è un simbolo della sua nuova strada. Vuole osservare e scoprire, vuole esaminare e costruire, prendere spunto dalle esistenze che attraversa e incrocia per sviluppare il proprio io. Le sue radici sono la salvezza da quel vortice di emozioni che l’ha trascinata nel baratro. Abbandona Miquel, lascia dietro di sé il nero della propria mortalità e si trasforma ne La Viajante.
Il suo posto è il deserto, ma non per registrare insetti. Stavolta cercherà uomini e debolezze; come una maschera moltiplicherà la propria esistenza dieci, cento, mille volte, indossando panni di volta in volta diversi. In ogni vita che incontrerà, potrà scoprire un pezzo di sé; una strada per interrogarsi e rispondersi mille volte e mille ancora. Storie e racconti, come mattoni e malta per costruire un’esistenza in cui abitare.