Ding!
Si aprono le porte dell’ascensore. Percorri un corridoio dalle pareti color crema e attraversi con grandi falcate una grande stanza rettangolare. Prima, seconda, terza fila… ah! Ecco la scrivania, teoricamente bianca, ora maculata a causa di troppe macchie di caffè. Sono le 8.57, il tuo turno inizia tra tre minuti. Passano otto ore, o quasi, sono le 16.55. Tra cinque minuti puoi tornare a casa, devi resistere giusto un altro pochino. A due file di distanza, riesci a sentire il tuo collega parlare al telefono: “No, no, non ne ho mai visto uno così grosso”. Ti scappa una risata soffocata. Il tuo vicino di scrivania lo nota, vi scambiate uno sguardo d’intesa, come da studentelli immaturi.
“That’s what she said”, sussurra.
Ah, giusto. Come in The Office. Eh.
Certe opere, una volta prodotte e consacrate all’interno dell’immaginario comune, diventano un canale indipendente di comunicazione, un fenomeno d’osmosi culturale inevitabile che occupa prepotentemente un angolo del cervello. Magari non avete visto la serie, ma sapete benissimo che «That’s what she said» è la battuta tipica del personaggio di Steve Carrell. Da questo punto di vista, poche serie possono vantare l’universalità di The Office, specie una volta che si inizia a lavorare in un qualsiasi tipo di ufficio. Jim, Michael, Pam, Dwight… li incontriamo tutti prima o poi. Anche Toby, purtroppo.
Nei momenti più assurdi, The Office assomiglia più a un cartone animato che alla realtà lavorativa americana, con la costante rotazione di pagliacciate dei vari personaggi. Nei momenti più quieti, invece, si intravede qualcosa di reale e facilmente comprensibile. Jim si diverte con scherzi a discapito del serissimo Dwight, ma lo fa per distrarsi da un lavoro tanto opprimente quanto noioso. Telefonate, fax, ordini e report da compilare, in un ufficio di una piccola città in Pennsylvania, presso una fallimentare società di prodotti di cancelleria.
Lavori simili, pieni di momenti morti, apparentemente inutili e insoddisfacenti, sono una fonte d’incredibile frustrazione per il lavoratore medio.
O, per usare le parole dell’antropologo David Graeber:
«C’è una profonda violenza psicologica in tutto questo. Come può uno anche solo cominciare a parlare di dignità del lavoro quando un altro, interiormente, pensa che il suo lavoro non dovrebbe esistere? Come può ciò non creare rabbia e risentimento?»
Il magico mondo dei lavori del cazzo
In un saggio pubblicato su Strike! Magazine, Graeber descrive i bullshit jobs (lavori del cazzo, perdonate la volgarità) impieghi che non offrono un contributo significativo alla vita quotidiana, senza un impatto rilevante sulle operazioni di un’azienda e che esistono apparentemente solo per occupare un lavoratore medio.
Questo tipo di lavoro finisce per danneggiare moralmente e spiritualmente l’uomo moderno, annichilito dalla mancanza di significato nel proprio mezzo di sostentamento. Anche se l’articolo è del 2013, questi non sono concetti nuovi: sono alla base dei primi atti di due opere fondamentali del 1999, Fight Club e Matrix, con entrambi i protagonisti in ambienti di lavoro opprimenti e umilianti nella loro mediocrità.
Graeber apre il saggio citando una predizione di John Maynard Keynes, economista degli anni ’30. Keynes stimava che in un prossimo futuro, considerando i progressi tecnologici, il lavoratore medio potrà permettersi di lavorare di meno, ipotizzando quindici ore alla settimana. Nel 2021, in un’era segnata dalla ricerca di produttività, straordinari forzati e di timori di licenziamenti imminenti in caso contrario, sembra una battuta crudele. Il ciclo di lavoro da quaranta o cinquanta ore alla settimana è ora standard, specie nel settore terziario in costante espansione.
Tuttavia, i lavori del cazzo esistono. Sembrano inutili, ma sono presenti nel grande schema lavorativo globale.
Considerando le tendenze parallele al minor consumo e alla maggiore produzione possibile in ambito aziendale, perché mantenere simili posti di lavoro e salari? Perché Dunder Mifflin é ancora in piedi, impiegando decine di incompetenti e frustrati?
Per Graeber non è una questione economica, ma morale e politica, una forma di controllo che valorizza l’impiego e la produttività, ma non l’uomo dietro la scrivania. Il disoccupato è considerato come un elemento esterno alla società laboriosa, quindi anche un impiego mediocre ha una reputazione migliore. L’impiegato, invece, non offre all’azienda le sue capacità o esperienze, ma il proprio tempo, otto-nove ore al giorno.
That’s what The Office said: sopravvivere a Dunder Miflin
Quindi come si applica questa visione quasi apocalittica al buffo, ma verosimile, ufficio di The Office? Chiaramente, a Dunder Mifflin, i lavori del cazzo abbondano. Jim è tra i migliori venditori della filiale, pur essendo un irreprensibile fannullone; Pam vede il suo posto di lavoro minacciato da un telefono fisso dotato di segreteria; Creed non riesce nemmeno a ricordare il proprio titolo; e Kevin… è Kevin. I dipendenti di Scranton non hanno prospettive di crescita, solo l’idea di entrare, lavorare il minimo sindacale tra le tante crisi dell’ufficio e tornare a casa.
Tuttavia, è facile trovare un nemico comune su cui sfogare queste frustrazioni: il capo.
Tipico, no? Mal comune, mezzo gaudio; i dipendenti, collettivamente, possono beffarsi e ridicolizzare il proprio capo, rivoltandosi contro l’autorità che li supervisiona. Tuttavia, Michael è nella stessa posizione, in un lavoro che non ha senso o significato, alle prese con dirigenti (idealmente) più furbi e con meno scrupoli. Quella stessa frustrazione e il conseguente desiderio di distrazione e cameratismo accomuna il leader della squadra ai suoi sottoposti.
The Office è giustamente ricordata come una delle serie più divertenti e iconiche degli ultimi anni, ed è indubbiamente grazie al tema familiare e immediatamente accessibile.
Le scene più divertenti e assurde sono sempre ambientate nel più modesto degli uffici, attraverso dinamiche tristemente riconoscibili e accolte da silenzi imbarazzati e sguardi di circostanza. Attraverso queste vicende di quotidiana follia e quieta disperazione, si creano legami che giustificano l’ordalia odierna di un lavoro aziendale.
Jim e Pam cercano qualcosa per colorare le loro grigie giornate e si trovano a vicenda. Michael cerca di costruire qualcosa di significativo in un ambiente insignificante e trova in Dwight il proprio luogotenente, tanto ambizioso quanto stupido.
Se un lavoro del cazzo porta i propri dipendenti a considerarsi inutili ingranaggi in una macchina che avanza per inerzia, The Office mostra come trovare valore in se stessi, al di là di impieghi privi di valore. «C’è molta bellezza nelle cose ordinarie», per citare Pam Beesley, receptionist, segretaria, amministratrice d’ufficio ed esperta in lavori del cazzo.