In un momento in cui Hollywood è tornata ad affrontare il tema razziale – tragicamente ancora attuale a livello sociale – Judas and the Black Messiah sembra essere il film necessario nel momento giusto. Prima opera con visibilità internazionale di Shaka King, il film si è distinto per l’insidiosità e la complessità dell’oggetto e dei soggetti della propria narrazione.
Non sono molti i casi in cui un film prodotto negli States, e soprattutto da una Major come Warner Bros. Pictures, esplori uno dei periodi più tesi e complessi della storia sociale e politica del paese. Non è mai facile prendere in considerazione gli anni 60′ e tutte le tensioni che ne derivano; tantomeno concentrandosi su Chicago durante quel decennio, proiettata all’interno del Black Panther Party.

Comizio di Fred Hampton ai seguaci del partito
La storia su cui il film fa luce è quella di Fred Hampton, vicepresidente – ma ormai capo effettivo – del partito delle Black Panther dell’Illinois. Approcciandosi a pellicole con tematiche simili bisogna senza dubbio tenere in considerazione l’importanza di una ricostruzione credibile. Ciò, in questo caso, non implica un senso di aderenza alla realtà, quanto una sapiente messa in scena del contesto e della vicinanza partecipativa all’oggetto.
Aprendosi con alcune immagini d’archivio – riconoscibili anche nel bellissimo documentario di Agnes Varda, Black Panther – e con manifestanti che inneggiano a una rivoluzione imminente in una società malata, la pellicola si addossa un fardello già considerevole. Un forte spirito di rivolta si avverte nelle prime immagini del film, il quale si apre con una prolessi ritraente il (falso) protagonista: William O’Neal.
Ancora minorenne, viene arrestato, ricattato e convinto dall’FBI a infiltrarsi nel partito capitanato da Hampton, vestendo i panni dello snitch, una spia. I fatti narrati sono in larga misura ispirati alle tristi pagine di cronaca della storia statunitense, non sarà questa la sede in cui ricordarli con precisione. Ci basti tener presente che nel 1969 il movimento per i diritti civili della popolazione afroamericana era stato segnato profondamente dagli assassinii dei due principali portavoce di tale lotta: Malcolm X nel 1965 e Martin Luther King, tre anni più tardi.
A distanza di pochi anni dalla nascita, il gruppo aveva trovato migliaia di seguaci, afroamericani e non, a favore della loro causa. Internamente, le Pantere avevano stilato anche una lista di dieci punti, richiedendo un trattamento alla pari e l’assegnazione dei diritti individuali intesi esclusivamente per la popolazione bianca.
La linea adottata era quella della violenza per autodifesa, attraverso la consueta organizzazione di raid armati, mostrando le proprie armi esclusivamente per difendersi dalle violenza delle forze dell’ordine. La vera arma del gruppo era la voce, i cori che inneggiavano alla rivoluzione immediata e al rilascio dei compagni detenuti con accuse quasi inesistenti.

Un gruppo di agenti durante un assalto alla sede del Black Panther Party di Chicago
Le repressioni governative non tardarono ad arrivare, in primis da parte del direttore dell’FBI Hoover che bolla gli adepti del partito come pericolosi terroristi. Il film riesce a tenere conto dell’emotività della situazione e alla percepibile ambiguità di un discorso di ragione immerso nel violento clima di quegli anni.
Abbracciando il socialismo marxista, il maoismo, le Pantere e Hampton avevano come nemico principale l’uomo capitalista, colui che continua a schiavizzare autoproclamandosi padrone del mondo.
«Non combatteremo il capitalismo bianco con il capitalismo nero, combatteremo il capitalismo con il socialismo».
La violenza verbale e spesso anche di azione delle Pantere proviene direttamente dalle istanze diffuse da Malcolm X. Stanco dei soprusi e del porgere l’altra guancia, l’attivista aveva invitato la popolazione afroamericana a guadagnarsi la libertà e l’emancipazione con la forza se necessario.
Esposta questa panoramica che presenta il contesto storico del film, Judas and the Black Messiah riesce nell’arduo compito di far rivivere precisi stati d’animo, oggi addolciti da decenni di affievolimento nella contestazione politica. Anzitutto va menzionata la superba prova attoriale del cast, su tutti Daniel Kaluuya (Hampton), già vincitore del Golden Globe per il miglior attore non protagonista. Sugli scudi anche Lakeith Stanfield (O’Neil), attore che negli ultimi anni ha brillato in innumerevoli produzioni di successo, da Atlanta a Uncut Gems.
La vicinanza interpretativa al delicato oggetto della pellicola si avverte, insieme alla quasi nostalgica rievocazione di un passato dove il desiderio per una società più equa era più che un’utopia.
Il titolo è una guida diegetica alla visione, con Hampton che eredita e incarna la figura del Messia, assassinato dai soliti farisei. La dialettica principale del film è una di lotta tra capitalismo e socialismo, da tanti anni assente nel circuito cinematografico americano. I temi socialisti o anticapitalisti saranno nostalgici e cari per qualche amante della settima arte, ripensando magari a film politicamente impegnati del miglior Godard.

Hampton durante un raduno con il partito
In un film come La Chinoise, il regista francese tagliava i soggetti fuori dalla narrazione, per rendere lo stesso oggetto antisociale vademecum della narrazione. In Judas and the Black Messiah i soggetti sono presenti e anzi si fanno testimoni del messaggio interno, attraverso i loro corpi.
Non c’è un vero e proprio protagonista in questo film, Hampton (fortunatamente) non domina la narrazione in maniera preponderante, evitando una vacua celebrazione del personaggio. Piuttosto, i protagonisti sono coloro che abbracciano la causa, ruotando attorno al loro Messia che porta in spalla la gigante croce della lotta politica.
Ricordando nella forma il melanconico e violento cinema degli anni Settanta, il film non si fa mancare di elementi mainstream, ma conferisce visibilità a un discorso sempre più presente sul panorama Hollywoodiano. Basti pensare alla presenza, tra le pellicole nominate, di Il Processo ai Chicago 7.
Judas and the Black Messiah risponde positivamente alla necessità di attualizzare questo discorso nella contemporaneità. Pur senza la carica sovversiva di un film di Godard o il radicalismo del cinema afroamericano del primo Spike Lee, la pellicola di Shaka King stuzzica il sistema ricordandogli che la memoria di ciò che è stato non è stata cancellata e magari questi anni saranno fervidi di riflessioni sul passato.




