Cosa cela quella maledetta isola nella serie intitolata Lost capace di appassionare milioni di spettatori?
Quali sono i temi veramente affrontati da questa storica serie tv, che in maniera così ambivalente ha diviso coloro che sono riusciti a seguirla fino alla fine? Jack, Sawyer, Kate e John, così come tutti gli altri, hanno valore come personaggi o hanno valore perché in quel contesto sviluppano dinamiche uniche e irripetibili, che danno vita solo ed esclusivamente a quella storia in quei precisi momenti?
Lost presenta aspetti razionali, aspetti irrazionali e aspetti razionalizzabili.
Tutto quello che è presentato nell’evoluzione dei rapporti interumani attraverso gli episodi della serie dà allo spettatore libertà vere e fittizie, partendo dal presupposto che quel famoso volo potrebbe aver avuto luogo in quel modo, oppure no.
Seguire Lost significa riconoscere che il concetto di verità è relativo: a prescindere dalla relazione tra immaginazione e realtà, la sensazione più immediata è che il tema principale sia proprio quello delle relazioni, intese come relazioni umane, fallaci eppure necessarie.
Sei stagioni garantiscono vissuti ricchi, problematici e critici: cosa rimane al fan quando il finale termina?
Il senso di essere perduti
Lost
JACK: «Sono già sei giorni, e aspettiamo ancora. Aspettiamo che qualcuno venga. Ma se non venissero? Basta aspettare: ora dobbiamo cominciare ad affrontare la situazione. È morta una donna stamattina, mentre stava nuotando. Lui ha cercato di salvarla, e ora volete crocifiggerlo? Questa cosa non funziona. Se ognuno pensa a sé, qui va tutto a rotoli. È il momento di organizzarci, dobbiamo capire come sopravvivere qui. Ho trovato l’acqua, acqua dolce in quella valle. Ci porterò un gruppo quando sorge il sole. Se qualcuno non vuole venire, trovi un altro modo per rendersi utile. Una settimana fa eravamo estranei. Ma siamo tutti qui ora, e Dio solo sa per quanto ancora. Ma se non riusciamo a vivere insieme, moriremo da soli».
Siamo alla seconda stagione, il chirurgo Jack Shepard sta iniziando a farsi carico delle responsabilità connesse alla tutela di un gruppo di sopravvissuti su un’isola apparentemente deserta, ma tanti misteri la circondano, troppi per la comprensione che l’intelletto umano può produrre.
Dal “Mostro” alla mancanza di coordinate, passando per la completa, ma lenta, disumanizzazione dei dispersi, che vedono diminuire la loro capacità empatica proporzionalmente alla diminuzione delle risorse.
Scomodare Golding e il suo Lord of the Flies sarebbe facile per costruire una parafrasi riflessiva delle decisioni di Jack, Sayid, Sawyer, Kate e gli altri. Eppure il problema è che le esigenze materiali non sono l’ispirazione principale di questo capolavoro.
La sensazione è che Lost sia costruita intorno alle interpretazioni soggettive: quei dispersi non sono semplici naufraghi, ma probabili provocatori archetipi di parti dannate della comune esistenza umana. Dal passato burrascoso alla criminalità, passando per amori falliti e somme di denaro pericolose, ciascuno di loro ha un demone da espiare tra gli alberi di quell’isola.
Teoresi, etica e materialismo: queste sembrano essere le chiavi di lettura al tempo stesso più provocatorie e significative di Lost. Fisica e metafisica s’intrecciano in questa serie, la trama riconfigura le categorie di spazio e tempo, rendendo cinematografico il pensiero di alcuni celebri filosofi che in maniera piuttosto noiosa si erano occupati di predestinazione e altre amenità.
La trama spiazza perché fenomeni apparentemente normali si sovrappongo a soluzioni narrative magiche. I creatori hanno volutamente costruito intorno intorno al naufragio sofferenze individuali e collettive di carattere esistenziale, che difficilmente trovano risposta.
La Botola
Nulla accade per caso
La tagline di Lost dichiara fin da subito l’intento principale della storia: dopo secoli di strani avvenimenti caratterizzati dalla cristallizzazione dello spazio e del tempo, l’Isola chiama prepotentemente a sé uomini e donne più o meno dannati, che cercano senza saperlo una forma di redenzione.
Tanti sono i dialoghi belli e importanti di Lost, ma questo è cruciale perché da un lato sancisce le divergenti filosofie di due dei personaggi principali, dall’altro inizia a rendere evidente il fatto che l’Isola sia una protagonista attiva della storia.
Diversi sono i movimenti della narrazione che risultano incomprensibili, anche dopo il finale: domande senza risposta assillano i fan di Lost da anni perché la passione suscitata difficilmente si estingue, ma la curiosità non è stata soddisfatta del tutto e la frustrazione è subentrata.
Dire adesso, a distanza di anni, quali sono i veri temi della serie è difficile, ma la produzione ha senza dubbio sollevato questioni senza precedenti: la sopravvivenza, la moralità e la predestinazione dominano le prime stagioni, quando la Botola è il centro dei dilemmi dei protagonisti.
La presenza dei resti del Progetto Dharma rende ancora più complicato l’intreccio tra passato e presente, in quanto con facilità i protagonisti della storia attuale mettono in atto meccanismi che sull’Isola erano attivi, ma sopiti da decenni.
Principio e fine di una parte della storia, il computer dei 104 minuti che si trova nella Botola tiene col fiato sospeso i due protagonisti, Jack e Locke, l’uomo di scienza e l’uomo di fede.
Una volta attivate le qualità elettromagnetiche particolari dell’Isola, risulta chiaro che l’elemento supernaturale diventa un fattore principale di Lost.
Le apparizioni e gli Altri
Lost – Libby
Dalla seconda stagione in poi, un elemento preponderante di Lost diventano le apparizioni di altri personaggi, in veste di fantasmi o spiriti redivivi; qualche allusione metafisica è presente anche nella prima stagione con la visione che Jack ha relativa a suo padre, ma dalla seconda in poi una schizofrenia collettiva affligge i sopravvissuti.
I miracolosi poteri dell’Isola sembrano favorire personaggi come Hurley o Aaron, protagonisti secondari, ma comunque essenziali per l’evoluzione della trama. Lo stesso Jack è continuamente afflitto da dubbi che alla fine si rivelano fondati.
Ben Linus e il gruppo degli Altri, che animano la storia prima con un conflitto misterioso e in secondo luogo come potenziali alleati del gruppo dei sopravvissuti, poiché detengono molte informazioni cruciali sulle caratteristiche dell’Isola. Suo acerrimo nemico è Charles Widmore (padre di Penelope, la fidanzata di Desmond), un ricco imprenditore ambizioso che vuole scoprire i poteri del luogo.
In questi conflitti d’interesse, risultano quasi secondarie le misteriose apparizioni di personaggi come Libby e Walt, che favoriscono i metafisici interrogativi del fandom di Lost.
La struttura speculare della storia di Mr. Eko e del gruppo di sopravvissuti dell’altra parte di aereo sul lato opposto dell’Isola non contribuisce a risolvere misteri, semmai ne solleva altri; in un modo o nell’altro, continuano a essere i legami il tema cruciale della serie.
Il valore dell’intersoggettività inizia a risaltare soprattutto nel triangolo amoroso tra Jack, Sawyer e Kate: i tre protagonisti danno vita a diversi intrecci sentimentali che fino alla fine della storia resteranno attivi.
John Locke, cercando di convincere gli Oceanic Six a tornare sull’Isola, dimostra ancora una volta che la sua filosofia gioca un ruolo determinante perché è l’Isola stessa a volerlo.
Passato e presente, morte e vita
Lost – Il funerale del padre di Jack
Quando tutto sembra diventare incomprensibile, Daniel Faraday entra in gioco per provare a districare gli intrecci spazio-temporali tra passato, presente e futuro, ciò che riguarda l’Isola e il Progetto Dharma non fa altro che diventare più misterioso.
Episodio dopo episodio, il senso di Lost sembra sfuggire inesorabilmente; seguire Jack e gli altri di ritorno sull’Isola dopo la morte di Locke sembra un’operazione stancante, sfiancante e inutile, le stesse storie che inizialmente accattivavano l’attenzione, diventano sempre più logore man mano che il finale della serie si avvicina.
Eppure, che qualcosa continui a muoversi e che un romantico fil rouge resti integro è evidente: poesia, arte e metafisica continuano a reggere la struttura di Lost fino alla fine, con una filosofia unica nel suo genere.
Sicuramente molte lacune restano, la frustrazione degli spettatori è comprensibile proprio perché la serie ha arrancato sin dal momento in cui l’Isola è stata spostata, nella quarta stagione.
Ciononostante, questa catartica scena del finale della sesta stagione sembra riassumere in maniera complessiva e olistica il messaggio filosofico che Lost intende lasciarci: al di là del Bene e del Male, della moralità, della sopravvivenza e dei misteri soprannaturali connessi all’Isola, ciò di cui Lost parla davvero sono i legami umani.
Il loro valore, incamerato nei sentimenti e nelle esperienze (estreme e non) condivise da Kate, Sayid, Claire, Sawyer e tutti gli altri, è significativo perché è reale.
Quelle che sembravano essere inutili allucinazioni tese a confondere i protagonisti, diventano la ragione dell’esistenza stessa della serie: in questa storia non è l’adesso che conta, ma l’orizzonte di senso che ogni individuo raggiunge perché lo condivide con l’Altro.
Quella chiesa, che Donald Winnicott definirebbe transizionale (spazio di legame tra il Me e il non-Me), che per Maurice Merleau-Ponty diventa origine di un’inestimabile telepatia irrevocabilmente umana: questo è ciò di cui parla veramente Lost.
Può piacere oppure no, ma quello che conta è che nessuno muore davvero da solo, se reale è il valore delle esperienze condivise prima.
È un finale che sembra abbracciarci, dopo diverse stagioni che avevano diviso la fede e la scienza, il destino e la razionalità, la sopravvivenza e l’artificio.