Come è possibile rimanere umani?
Questo pensava Jonathan Franzen mentre veniva sballottato da ogni parte su una nave in burrasca, nel pieno del Pacifico meridionale.
Era diretto verso un’isola ignota e con sé aveva solo pochi oggetti.
Un’edizione tascabile di Robinson Crusoe e un libercolo contenente le ceneri dell’amico David Foster Wallace.
Franzen racconta questo viaggio e le sue dissertazioni su come rimanere umani, nella raccolta di saggi: Più lontano ancora, pubblicato in Italia da Einaudi nel 2014.
In quel periodo si sentiva irrimediabilmente intossicato da e-mail, caffeina, nicotina, alcol. Ma soprattutto da uno stile di vita preimpostato e sempre uguale a sé stesso. Lo opprimeva l’idea di vivere in una società che si evolve così rapidamente da farti dimenticare i problemi costitutivi della tua esistenza.
Intrappolato in questo loop, rimandava da due anni l’elaborazione del lutto del suo più caro amico.
«Ma ho debiti con Dio e non sconfiggerò i miei demoni
Questo asfalto e questi errori non mi hanno insegnato niente
I flashback mi hanno flashato, il passato torna sempre»
(Guè, Immortale)
Si erano ripromessi, lui e David, di cercare «una via d’uscita dalla solitudine» nella scrittura.
Era secondo quest’unico dogma incrollabile che Franzen aveva vissuto la sua vita.
E di colpo il suicidio di David in qualche modo stravolge questo accordo e sposta gli equilibri, tradendo questa cieca fiducia che Franzen aveva nel potere demiurgico e taumaturgico della scrittura.
Franzen non aveva altra scelta se non quella di fuggire al di fuori della civiltà, in un luogo sospeso, che non risponde a nessun tipo di logica deterministica o meccanicistica. Sentiva di necessitare di tutto il tempo del mondo per poter lasciar andare l’amico. E alla fine riuscirà a trovare una quadra, che non può ovviamente essere un’assoluzione, né per David né per sé stesso.
Un’operazione simile fa Alina Marazzi con Un’ora sola ti vorrei, documentario dedicato alla riconciliazione della regista con sua mamma. Per fare i conti, per essere più precisi, con il suicidio di sua mamma.
A differenza di Franzen, Alina non cerca risposte: soltanto un po’ di affetto. Marazzi fa del documentario il suo luogo dell’anima sospeso in cui tutto è possibile e in cui il cinema si configura come l’unico strumento possibile per ricucire una ferita aperta.

Alina parte da un’immagine audiovisiva: la sua mamma che le canta “una canzone italiana” e da lì ricrea tutto un mondo.
Camminando funambolicamente tra dimensione privata e dimensione pubblica, Marazzi arriva a delineare lo spaccato di un’Italia che non c’è più.
Questa dimensione collettiva, ricordata con nostalgia ma anche messa in discussione, mette al centro la Milano degli anni Settanta. Una città che, durante le contestazioni, si ritira sistematicamente nella sua borghesia e nelle sue tediose ritualità.
Allo stesso modo, la famiglia Hoepli, da cui Alina proviene, censura la madre ancora in vita, così come censurerà la sua immagine e il suo ricordo da morta.

Solo Alina, con il suo cinema, può riappropriarsi dell’immagine e della storia della sua mamma, in una maniera molto semplice: donandole la sua voce e creando così una crasi tra la presenza fantasmatica della mamma e la sua voce di figlia.
A volte Liseli Hoepli (la mamma di Alina) guarda in macchina, in silenzio, con i suoi occhioni di ghiaccio. Sono immagini che trascendono la loro materialità, assurgendo a un significato diverso e superiore, perché sono sguardi che attraversano un wormhole spaziotemporale arrivando diretti ad Alina, in un’impossibilità diacronica che solo il cinema può ricucire.

Entrambi a loro modo, Franzen e Alina, devono fare i conti con la vera faccia dell’amore e con la necessità di:
«Sporcarsi le mani amando qualcuno»
(Susan Sontag)
Il fango figurato è quello che schizza sullo specchio della nostra vanità. È il pensiero orribile e inaccettabile che David e la mamma di Alina si siano suicidati nell’egoismo più totale. Neanche l’affetto della figlia o del migliore amico sembrano essere stati abbastanza per trattenerli.
«Un personaggio amabile e pieno di talento è caduto vittima di un grave squilibrio chimico del cervello. C’era la persona e c’era la malattia, e alla fine la malattia ha ucciso la persona come un cancro»
(Jonathan Franzen, Più Lontano Ancora)
Questa visione è più o meno vera e al contempo del tutto inadeguata: è una follia pensare di ridurre un ricettacolo di pulsioni contrastanti, irrazionali e depressive a un semplice rapporto causa-effetto.
«Si suicidò, in una maniera calcolata per infliggere più dolore possibile a coloro che amava di più, e noi che lo amavamo ci sentimmo traditi e pieni di rabbia. Traditi non solo perché il nostro investimento d’amore era fallito, ma anche per il modo in cui il suicidio ci avevo portato via la persona e trasformato in una leggenda»
(Jonathan Franzen, Più Lontano Ancora)
La consapevolezza a cui Franzen arriva e di cui è imbevuto Un’ora sola ti vorrei è la condizione di esilio insanabile di chi è intrappolato in un’autocoscienza in cui non filtra più l’affetto di chi c’è attorno.
David e Liseli erano due ergastolani nell’isola del proprio io e la sola idea che l’amore degli altri li potesse salvare è una chimera.
Come è possibile ricominciare daccapo?
Come credere di nuovo nell’amore, nella scrittura, nel cinema?
È davvero possibile rimanere umani?
La morte di David sconvolge Franzen in modo radicale. Il suo amico aveva appena concluso Infinite Jest, il romanzo più complesso e maturo di David Foster Wallace e che gli aveva permesso, almeno in apparenza, di toccare una forma di compiutezza creativa. Circondato da persone che amava e di cui finalmente si fidava, David si è sentito in quel momento della sua vita di provare un atto di coraggio: sospendere gli psicofarmaci.
E, subito dopo, il suicidio. Perché?
È questa domanda che travolge Franzen, ed è qui che la loro promessa sembra vacillare. Forse la scrittura non era davvero la via di fuga che avevano creduto. Se non aveva salvato David, forse il più fulgido talento del suo tempo, allora forse non poteva salvare nessuno.

Col tempo, Franzen si rende però conto che in David c’era una tendenza profonda, che permeava sia la sua scrittura che la sua vita: quella di non bastare mai a sé stesso, di spingersi sempre oltre.
David la esprime in un sillogismo sulla perfezione, confutando il pensiero che collega questo concetto alla noia. Siccome essere noiosi è un’imperfezione, sarebbe per definizione impossibile che una persona perfetta fosse noiosa.
Ed ecco che arriva, esegetica e affilata come uno stiletto, la risposta di Franzen
«È un’ottima battuta, e tuttavia la logica è un po’ strangolatoria. È la logica del “tutto, e di più” e tutto e di più è quello che voleva per sé stesso e per la sua scrittura»
(Jonathan Franzen, Più Lontano Ancora)
Infinite Jest nasce proprio da questa logica folle: un mondo altro, totalizzante e ossessivamente regolato dai più assurdi e reconditi desideri del suo contorto Es, così bisognoso di regole.
Ma proprio qui sta la frattura. Una volta raggiunto quel “tutto”, David ha voluto ancora “di più”. E quando si supera la realtà e si supera sé stessi, quando si arriva all’estremo di ciò che si può dire e immaginare, non resta che il rischio di farsi del male.
Quando David finisce Infinite Jest e sospende gli psicofarmaci, capisce che nessun mondo di inchiostro gli basterà più. È andato oltre la realtà. E laggiù c’è solo la noia.
«David era stato ucciso dalla noia e dalla disperazione per i suoi futuri romanzi»
(Jonathan Franzen, Più Lontano Ancora)
Cosa c’è dopo il tutto? Oltre l’Ellesponto? Al di là delle porte di Ercole? Dietro un buco nero?
Forse c’è una perfezione inafferrabile, il sublime, il tutto e di più, chi può dirlo? È proprio questo il problema: perché tutti i Serse che hanno provato a soggiogare l’Ellesponto, tutti gli Ulisse che si sono spinti oltre l’ultimo limes umano e tutti i David che hanno tentato la traversata di un buco nero, non sono più tornati per raccontarlo. Sono stati trascinati nei propri e rispettivi abissi personali da un peccato comune: l’hybris.

Franzen, intraprendendo questo viaggio fisico e spirituale al tempo stesso, verso l’isola Masafuera (ancora più lontano in spagnolo), voleva proprio fuggire da questo abisso di tracotanza.
Ironicamente, nel tentativo di scrivere quest’articolo, sono inciampato anch’io nella stessa logica massimalista di David. Avevo in mente di partire da più lontano ancora, passando per l’opera di Alina Marazzi, e fin qui il nesso è chiaro, ma non mi sembrava abbastanza. Volevo andare oltre alla scrittura, oltre alla parabola del suicidio: volevo parlare del male di vivere dei nostri tempi, della tecnologia, i social… Chi più ne ha più ne metta, di tutto e di più.
Ogni tema ne chiamava un altro e poi un altro ancora. Non trovavo un centro, figuriamoci una conclusione. Come Franzen, iniziavo a dubitare che la scrittura fosse davvero una via di fuga.
Ironia della sorte, avevo persino pensato di intitolare questo pezzo “Di tutto e di più”.
Finché non mi sono imbattuto nel passaggio in cui Franzen descrive proprio la logica autodistruttiva di David.
È lì che ho capito che la risposta era chiara e semplice: amare la scrittura.
E il finale si è scritto da solo.

Una mattina, Franzen, riemergendo dal sonno e dalla sua tenda afflosciata dopo le intemperie, rimase pietrificato a contemplare un’alba meravigliosa che si schiudeva sul Pacifico. Sentiva d’improvviso il bisogno impellente di parlare con il suo amico, di condividere con lui quella bellezza. Voleva obbligarlo a guardare quei paesaggi mozzafiato che troppo spesso David non era stato capace di apprezzare, perché obnubilato dai mondi veleggianti della sua mente.
Ma David non era più lì con lui, era morto.
Franzen aprì il libretto e lasciò volare via le ceneri di David.
Ci vediamo, idiota.




