Significato di Orfeo di Villoresi: danzare sul ciglio del crepuscolo

Sofia Racco

Dicembre 11, 2025

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Ha ancora senso riportare in vita i morti?

Ma soprattutto: arriverà un giorno in cui guardarci alle spalle, con lo sguardo sempre rivolto all’indietro, ci salverà dall’oblio?

Orfeo ed Euridice è uno dei miti più suggestivi per la sua capacità di evocare immaginari, con il viaggio del cantore in un’aldilà sconosciuto e pieno di anime, ma soprattutto per il suo raccontare un amore immortale e fragile, capace di sfidare il regno dei morti, eppure così indifeso davanti alla possibilità di vivere ancora.

É anche il mito capace di generare più domande sull’amore, creando discorsi che riflettono le costruzioni sentimentali di ogni epoca in cui viene raccontato e rimaneggiato: perché Orfeo si volta? É perché ama troppo Euridice o perché non la ama abbastanza?

Orfeo di Virgilio Villoresi è un atto di fede e una prova di immaginazione.

Orfeo di Virgilio Villoresi

É un’opera prima nel senso più autentico del termine, una prova d’autore che si prende ogni rischio del caso, realizzando una visione pura, ostinata e appassionata con ogni strumento creativo possibile. Frutto di un lungo periodo di lavorazione e dell’impiego di molteplici tecniche mutuate dai grandi del cinema (sono numerosi i riferimenti al cinema classico, come Le notti bianche e Ritratto di Jennie, e l’influenza riconosciuta dallo stesso regista del cinema di Maya Deren, Jan Svankmajer e Jean Cocteau) e di numerose maestranze provenienti dal mondo dell’animazione (Anna Ciammitti, Stefania Demicheli, Umberto Chiodi) -, Orfeo è un lavoro di minuzioso artigianato che coniuga l’essenza eterea evocata dalle immagini con la loro intrinseca materialità, trasformandola da limite a risorsa.

Nel rievocare su pellicola le tavole di Poema a fumetti di Dino Buzzati, a sua volta rifacimento moderno del mito di Orfeo e Euridice, Villoresi attinge dalla scompigliata cassetta degli attrezzi dell’arte cinematografica e del mondo dell’animazione per comporre quadri metafisici per il palcoscenico.

Poema a fumetti di Dino Buzzati

E tenta anche di ridare linfa a quei morti che non riusciamo a dimenticare, alla matassa di ricordi sepolti che ci ossessionano, a quelle idee e a quelle immagini che non ci lasciano andare finché non siamo noi a farlo dando loro un corpo, uno scopo, una storia da abitare.

Orfeo: fucina di ombre e di visioni

Orfeo di Virgilio Villoresi

Tutto è una finzione nella finzione, nulla è reale: la musica che Orfeo suona ogni sera al piano, i passi di danza dell’amata Eura, il loro amore e la scomparsa improvvisa di Eura.

La storia di amore è semplice, breve, intensa: due sguardi che si incontrano, corpi che danzano, cuori che bruciano e anime che si saldano l’una all’altra. Orfeo ed Eura si riconoscono e si parlano attraverso l’arte, la musica, la danza: il loro amore contiene in nuce qualcosa di magico, una forza alchemica che scaturisce dall’accostamento tra l’atto d’amore e l’atto creativo.

Orfeo ed Eura, interpretati da Luca Vergoni e Giulia Maenza, amano e creano, creano e amano: e quando il filo di quell’amore viene interrotto e i corpi vengono separati, la fantasia colma quel vuoto proiettando fantasmi, fabbricando creature, inscenando gironi infernali da attraversare per sconfiggere la morte.

Meshes of the afternoon (1943) di Maya Deren

Corpi e ombre, visioni e allucinazioni, presenze e assenze sono fili che si intrecciano in una matassa stralunata, in una zona liminale dove la realtà si riduce ai minimi termini del sogno, del simbolo che non ha bisogno di spiegarsi per esistere, esiste e basta.

Orfeo ama Eura per poi perderla, e cercarla dappertutto, dietro le tende, dietro le porte immerse nella notte, nel sogno, nel ricordo e nel rimpianto. È il racconto di un respiro mozzato con tenerezza e violenza, di un amore interrotto che non sa dove andare e in assenza di una destinataria si sparge ovunque, contamina la vista e distorce i contorni delle cose, impalpabile come una visione, vitale come il sangue.

Le sang du a poet (1930) di Jean Cocteau

Le atmosfere sono quelle delle fiabe nella loro versione meno edulcorata, dove il sublime convive con il demoniaco, il sogno con la carne che lo genera, la veglia con la morte. Orfeo intraprende il viaggio dell’eroe, del principe, e sprofonda nelle viscere del sogno, dell’allucinazione, dei fumi morbosi del delirio: é la via del profeta, del pazzo, dell’eretico, dell’artista.

Villoresi raccoglie la lezione di un grande maestro dell’arte surrealista e del simbolismo cinematografico: quella di Jean Cocteau, che con la sua trilogia orfica (Il sangue di un poeta, Orfeo e Il testamento di Orfeo) in cui il mito diventa specchio dell’individuo, dell’uomo, dell’artista, dei suoi sogni e della modernità nel quale è imprigionato.

Cocteau apre il suo Orfeo, ambientato e pervaso dalla Parigi degli anni Venti, con una dichiarazione di intenti: l’atemporalità della leggenda diventa una tela bianca con cui giocare, scarabocchiare interpretare.

«La leggenda di Orfeo è ben conosciuta. Nella mitologia greca, Orfeo era un cantore della Tracia. Il suo canto affascinava anche gli animali ma lo distraeva dalla moglie Euridice. La Morte gliela tolse. Lui discese agli Inferi ed usò il suo canto per ottenere di ricondurre Euridice nel mondo dei vivi. A condizione di non guardarla. Ma lui la guardò e venne fatto a pezzi dalle Baccanti. Dove si svolge la nostra storia, ed in quale epoca? È privilegio della leggenda essere senza tempo.Fate come volete. Interpretate come volete…»

(Jean Cocteau)

Orfeo: Tecnica e visione, dal mito greco a Cocteau

Orfeo di Virgilio Villoresi

Il critico Roger Ebert nella sua recensione di Orfeo ha celebrato il vigore sperimentale del film di Cocteau e il suo passare attraverso effetti scenici semplici ma ingegnosi, realizzati con l’obiettivo di dare vita all’immaginario filmico di un mondo estratto dalle ombre e dalle allucinazioni del mito.

Se nell’Orfeo di Cocteau il mito di Orfeo e Euridice si sgretola tra gli ingranaggi della modernità, la versione di Villoresi sembra inscenare un duello tra dimensione più arcaica e intangibile del mito e i segni indelebili di una modernità che è già diventata passato: è la modernità novecentesca del surrealismo, una lente sempre più opaca che cerca di leggere un reale sempre meno intellegibile, creando allucinazioni caleidoscopiche di ectoplasmi e corpi di carne, di ossa e di soli abiti.

In Cocteau l’amore al centro del mito assume precise connotazioni sociali e culturali, trasformando l’amore immortale ed enfatico della tragedia greca in invenzione pura, da materia dei poeti a rito borghese, mentre in Villoresi l’amore di Orfeo per Eura è un miraggio, una proiezione fantasmatica del sé.

Un po’ come in Buzzati, il sentimento amoroso viene vagliato attraverso una lente più psicoanalitica che socioculturale, concretizzando la rilettura in chiave moderna non tanto attraverso lo scenario urbano nella sua concretezza, ma ricostruendo un paesaggio interiore che non mima l’estetica del contemporaneo ma si pone come sua diretta emanazione, come prodotto onirico che ne condensa le preoccupazioni, i traumi, le nevrosi irrisolte.

Orfeo di Virgilio Villoresi

D’altronde anche la nostalgia, lo sguardo malinconico sempre rivolto verso un’immagine di un passato che è esistito solo in parte, è un prodotto della contemporaneità, forse il più significativo.

Ma se il ricorso a un’estetica nostalgica fatta di pastiche di rimandi e di citazioni ad epoche e autori, spesso risulta in un esercizio sterile che rischia di scollare la forma dal suo significato, in Orfeo il richiamo al mito greco, a Cocteau, al surrealismo di Buzzati o all’horror argentiano evocato nelle atmosfere diventano gli strumenti di un artigiano alle

Villoresi, pur nella sua visione autoriale intimamente personale, mantiene intatto il filo sottile che collega il suo Orfeo a quello di Cocteau: la riflessione sulla modernità e soprattutto sull’arte, dalla poesia alla musica fino al cinema, e sul suo essere un buco della serratura attraverso il quale osservare porzioni nude di realtà.

Uno scrigno di pellicole

Orfeo di Virgilio Villoresi

Tutto è finzione, nulla è reale, soprattutto la realtà. L’unica realtà tangibile e concreta è quella che ci costruiamo da noi, è il materiale che sostiene quella finzione ambita, progettata e dichiarata: l’uso della pellicola 16mm, le scenografie fatte a mano, la compresenza di found footage, illusioni ottiche e stop-motion, sono elementi che concorrono alla creazione di un universo onirico con un vigore tale da imporsi su una realtà quotidiana che in confronto risulta scialba, esangue.

«La scelta della pellicola 16 mm nasce dal desiderio di conferire al film una qualità organica, viva, profondamente materica. C’è qualcosa di affascinante e irripetibile nella grana, nei difetti, nei limiti stessi del supporto analogico. Ho voluto giocare anche con i fondini finali della pellicola, quelle porzioni rovinate, piene di sporcature, graffi, bruciature: le ho inserite in alcune sequenze come se scorressero letteralmente nel sangue di Orfeo.
È come se quei frammenti impuri raccontassero visivamente la sua interiorità, il suo corpo, la sua mente. Una materia in disfacimento che però diventa linguaggio, una sorta di finestra sulla dimensione più fragile, viscerale e onirica del personaggio»


(Virgilio Villoresi)

Virgilio Villoresi

Villoresi dalla graphic novel di Buzzati non assorbe mimeticamente la grafia, l’estetica, il gusto per il surrealismo e la suggestione del mito trasposto nella modernità, ma interiorizza la concezione sperimentale dell’arte in senso più profondo, come ricerca di nuovi linguaggi, di nuove rappresentazioni.

Dove Buzzati decide di ricorrere al linguaggio per l’epoca innovativo del fumetto, Villoresi ritorna alle radici del cinema, si rivolge al passato per avere uno sguardo sul futuro: rispolvera i mezzi e le icone del cinema delle origini, rimette in scena quelle stesse pulsioni oniriche ed erotiche alla base delle avanguardie, come se fossero rimaste intatte, come se il tempo non le avesse sfiorate.

Un atto di fede nei confronti della creatività umana, una dimostrazione di fiducia fanciullesca nei confronti dell’arte come azione, come insieme di maestranze, di mani e di occhi umani capaci di unirsi e di costruire mondi alternativi.

Il film di Villoresi è un microcosmo costruito nei minimi particolari, una piccola storia che non ha paura di vivere solo per sè stessa. Orfeo è un portagioie che nasconde in ogni cassettino delle piccole fantasmagorie, è un carillon di spettri fatti a mano, una casa con tante finestre buie che nascondono mondi fatti di luce, cartapesta e cellulosa.

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