Blade Runner 2049 – Una speranza di umanizzazione

Andrea Martelli

Ottobre 9, 2017

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Los Angeles 2049. L’agente K dà la caccia ai Nexus 8, vecchi modelli di replicanti, per ritirarli definitivamente. La sua ultima vittima riporta in superficie un vecchio ricordo, chiave di un segreto che, se rivelato, comprometterebbe per sempre l’equilibrio tra l’uomo e le macchine. L’agente K parte alla ricerca di un vecchio blade runner sparito nel nulla trent’anni prima, l’agente Rick Deckard, chiave di volta per un segreto nascosto troppo a lungo.

Poche informazioni e una responsabilità enorme, quella di cui si è preso carico Dennis Villenueve con l’ingombrante eredità di dirigere uno dei film che più hanno segnato la storia della fantascienza, tanto da dividere la storia in un prima e un dopo Blade Runner.

Il mondo è andato avanti

La Los Angeles di trent’anni prima è mutata, ma poi non così tanto, sempre piovosa e buia, illuminata da insegne al neon di schermi luminosi e ologrammi interattivi. Stavolta anche la neve cade e copre la città.

Nelle numerose inquadrature aeree si nota che l’urbanizzazione si è intensificata e la popolazione sembra cresciuta a dismisura; le città appaiono organizzate con meticolosità e le abitazioni, più alte e fitte della precedente versione, sottolineano lo sviluppo urbano maggiormente intensificato. La lontana periferia è diventata ormai una discarica a cielo aperto, dove gli ultimi abitanti cercano di sopravvivere sfruttando il lavoro di bambini per l’estrazione del nichel. Inoltre, gli interminabili tessuti urbani sembrano circondati da alte mura e da un mare minaccioso e in costante fermento, privo di spiaggia.

Ci viene presentata anche una Las Vegas abbandonata e senza vita, in netto contrasto col resto del mondo, perché avvolta da una luce rossastra e polverosa, probabilmente inghiottita dal deserto circostante. Sembra quasi che il clima terrestre sia pienamente compromesso a causa dell’umanità e della globalizzazione della tecnologia.

L’agente K

Ciò che è rimasto immutato all’avanzare del tempo è la stessa sensazione di solitudine che si insinua in ogni angolo delle caotiche strade. Il protagonista è l’emblema di questa situazione; si muove in una perpetua alienazione per tutto lo sviluppo di Blade Runner, mimetizzandosi tra la pioggia e la nebbia delle strade sovraffollate, per poi tornare nella sua triste casa in un triste edificio, dove l’unico sollievo alla sua malinconia è rappresentato da un’intelligenza artificiale con cui ha instaurato un forte legame.

Il film si regge tutto sulla figura sola e malinconica dell’agente K, interpretato da un bravissimo Ryan Gosling, che cerca il suo posto nel mondo e trasforma la caccia ai replicanti in una propria ricerca della verità.

Blade Runner

La propria ragione di essere

Come l’albero da cui nascono le vicende della pellicola, Blade Runner affonda le sue radici nella ricerca dell’umanità e del senso della vita. 

Anche il protagonista, androide della nuova generazione e quindi più incline all’obbedienza, cova il sogno di essere umano. Le indagini lo portano a credere di non essere stato creato in laboratorio, ma di essere nato, in quanto i ricordi che credeva fossero stati impiantati, sono reali e sono stati vissuti da una persona.

Così la presunta vitalità fa vacillare la sicurezza del protagonista, mettendo in gioco la possibilità dell’aver vissuto e di essere stato parte del corso del tempo. Il film ci parla proprio della conoscenza intrinseca di se stessi, del riconoscersi come parte del mondo e non come un oggetto. Perché è proprio questo che caratterizza l’essere umano. Il processo di ricerca della propria ragione di essere da parte dell’agente K, si dipana in lunghe indagini e interminabili silenzi, ma forse la risposta non sta nella tanto desiderata umanità.

Presa coscienza del proprio destino e del proprio posto nel mondo, il fine ultimo è quello di riconoscersi dentro un obiettivo più grande e importante, la ricerca di un ideale in cui identificarsi e da difendere a costo della propria vita.

Blade Runner
La desolazione del futuro

La pesante eredità di Villeneuve

Villeneuve, reduce da un’autentica bomba come Arrival, scrive e dirige un film consapevole della pressione lasciatagli in eredità, ma consapevole di poterla gestire. Il nuovo Blade Runner gode di vita propria, riallacciandosi al passato, ma guardando al decadente futuro distopico. Prende la sua strada con coraggio e continua a estendere il genere sci-fi con l’aggiunta della struttura noir.

In continua evoluzione, Villeneuve evolve la psicologia dei personaggi, rendendoli più consapevoli di se stessi in quanto replicanti e all’apparenza meno umani, ma comunque costretti a consumarsi in un tormento interiore nonostante la propria natura.

Il messaggio bioetico stavolta, però, appare più diretto e meno velato rispetto al Blade Runner di Ridley Scott, figlio di un’eccessiva verbosità, che vuole quasi fornire uno spiegone in quasi tutto il film, a differenza della struttura intrinseca del suo predecessore.

Non da meno sono alcune scelte discutibili del plot, che portano quasi a pensare che in produzione ci sia qualcuno che non vede l’ora di lanciarsi in una cascata di sequel.

Nonostante tutto, rimarrà per sempre scolpito nella memoria l’agente K, un personaggio che muta insieme al mondo che lo circonda, consapevole di cosa rappresenti il sacrificio. Perché alla fine, quello stesso universo viene visto con occhi diversi dal principio, e il tempo di assaporare la fragile gioia di una partita vinta arriva in solitudine sugli scalini di un edificio, come una nevicata improvvisa. In fondo, chi è davvero un replicante? Chi un essere umano? Chi è stato creato e chi no? E qual è la reale differenza?.

Blade Runner

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