Rifiuti organici e qualche pezzo di memoria facilmente malleabili: questi sono gli ingredienti per fabbricare un essere umano nello spazio in Mickey 17. Il ponte tra la vita e la morte è un’enorme stampante 3D capace di replicare i corpi alla perfezione prolungandone l’esistenza per un tempo potenzialmente infinito: la morte non è più una soglia invalicabile, ma un’altra fase della vita di cui conserviamo la memoria, un’ostacolo tutto sommato superabile, seppur non senza un po’ di noie.
E lo sa bene Mickey Barnes, che di morti se ne è già sorbito ben diciassette: è il suo compito da Sacrificabile, una sorta di cavia intergalattica il cui unico scopo è morire in più modi possibili. Morto un Mickey, se ne fa un altro: che sia stato arso vivo dalle radiazioni, mutilato dalle pale dell’astronave, oppure morto di stenti tra i ghiacciai del pianeta Nilfheim, lo schema rimane sempre lo stesso. Alla morte deve seguire la replicazione, a un cadavere corrisponde una copia: ma cosa succede quando i duplicati si incontrano?

Mickey 17, ultimo lavoro di Bong Joon-Ho, è una satira politica, un racconto di fantascienza in bilico tra distopia e commedia sguaiata: ma è anche un pastiche postmoderno nel suo iniettare materia negli spettri frammentati e dissociati che ci tormentano da quando l’aggettivo postmoderno è stato coniato. Mickey 17 ha ben poco della stratificazione di significati e della raffinata architettura di potere raccontata in Parasite: Joon-ho vira con violenza verso un registro più esasperatamente surreale, così tanto da diventare una triste mimesi di ciò che vuole parodiare.
E forse è inevitabile che sia così: rispetto a pochi anni prima, quando Parasite ha fatto incetta di Oscar, la realtà è diventata ben più rumorosa delle sue narrazioni. Troppo rumorosa, troppo sopra le righe per piegarsi a tentativi di astrazione. Così Mickey 17 si ritrova a tagliare con precisione i contorni delle figure grottesche che popolano e dominano la contemporaneità, riassemblarle insieme senza un gran bisogno di esasperarne i tratti o di edulcorarne le manie e le miserie, perché ogni abbozzo di caricatura finisce per diventare un ritratto iperrealistico.
È ancora possibile fare della satira nel palcoscenico contemporaneo? E se la risposta è affermativa, quali possono essere i nuovi codici visivi, estetici e narrativi della satira cinematografica? E qual è il destino del genere sci-fi in un mondo dove gli avanzamenti tecnologici e le atmosfere futuriste profetizzate nella letteratura e cinematografia di genere sono sempre più lontane dal regno dell’immaginazione e sempre più vicine alla quotidianità?
Tra sacrificabili e falsi dei: il postcapitalismo interstellare

I Sacrificabili sono coloro che si offrono come cavie per la missione nello spazio capitanata da Kenneth Marshall, un grottesco politico conservatore alla ricerca disperata di consensi, e sua moglie Yfla. Il compito dei Sacrificabili è quello di testare tutti gli ostacoli che potrebbero minare la compatibilità tra la vita umana e il pianeta alieno di Nilfheim, e l’essere ristampati nuovi di zecca si rivela solo un modo per collezionare nuove morti e studiarle al telescopio in nome della missione colonialista della coppia.
Il concetto di insostituibilità è il vero fulcro filosofico di Mickey 17 e della sua critica anticapitalistica: nella feroce macchina ultratecnologica del capitalismo contemporaneo il pensiero di essere rimpiazzabili diventa una nozione interiorizzata, un dato di fatto.
Che importanza ha la morte di Mickey Barnes quando un Mickey 1, 2, 3 e via dicendo sono già freschi di stampa, assolutamente identici all’originale con tanto di memoria conservata su un supporto esterno?
Grazie alla stampante 3D, anche la morte, ultima grande nemica del capitale, insormontabile e indomita nella sua insondabilità, sembrerebbe far capolino: che importanza ha morire quando lo si può fare così tante volte e tornare vivi come se niente fosse?
«Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia»
(Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici, 1844)
I Sacrificabili, d’altronde, erano già tali sulla Terra: criminali mediocri, gente senza prospettive, perdigiorno e scansafatiche caduti nelle mani degli strozzini, disperati pieni di debiti fino al collo. Il destino che li attende nello spazio era già stato segnato sulla Terra, con la sola differenza che nella missione per la scienza e per il progresso e nella possibilità di replicarsi all’infinito sembra nascondersi una piccola disperata scintilla di redenzione. Così nella navicella dei Marshall viene instaurata una piccola società postcapitalista, con le sue gerarchie immutabili e il suo sistema di valori: e così come nel suo corrispettivo terrestre, anch’essa si è fabbricata un suo surrogato di religione, fondamenta traballante sul quale costruire la sua legittimità.

E come tutte le religioni anche il regime delirante di Marshall ha le sue regole inviolabili: «Una sola anima per un solo corpo» è il mantra che sancisce l’esistenza delle repliche sacrificabili. L’esistenza dei Multipli, ovvero la compresenza di più copie, è severamente vietata e punita con la morte definitiva di tutti i Multipli.
Non è un caso che siano proprio i Multipli ad essere demonizzati e bollati come abominio, in quanto portatori espliciti di una complessità che demagoghi come Marshall preferiscono seppellire sotto cumuli di retorica spicciola; infatti, saranno proprio i doppi Mickey ad accendere la miccia della ribellione. Una coscienza politica scissa: da un lato la rassegnazione lamentosa del n. 17, dall’altro la rabbia incendiaria e la sensualità anarchica del n.18. La loro esistenza smentisce l’assioma di questo sgangherato sistema coloniale: nulla può essere davvero riprodotto in serie, identico in ogni dettaglio, men che meno un essere umano.
Prigionieri di una galassia sterminata

La lente di Mickey 17, così come di molti sci-fi, è il paradosso di una galassia compressa, di un universo infinito vissuto solo attraverso spazi ristretti e claustrofobici: il cosmo è immenso, ma la porzione ritagliata per gli esseri umani dai numerosi limiti fisici imposti dal contesto è alquanto ristretta. Tra isolamento e condizioni di vita spartane, la nobile missione colonizzatrice nello spazio somiglia sempre più a una prigione.
Un’intuizione già formalizzata dalla regista Claire Denis nel suo High Life, che si lega al film di Bong Joon-Ho sia per l’ambientazione che per la presenza dello stesso attore protagonista, Robert Pattinson. Se in Mickey 17 interpreta uno sgangherato Mickey che odia morire, ma odia ancora di più gli strozzini che gli stanno alle calcagna; in High Life lo troviamo invece nei panni dell’ascetico Monte, un criminale che viene mandato insieme ad altri prigionieri condannati all’ergastolo in una missione suicida alla ricerca di nuove fonti energetiche.
Due film diversi per toni, atmosfere e temi: se in High Life Denis sviscera attraverso uno sguardo umanista questioni come l’intreccio tra sessualità e scienza osservando le dinamiche che si creano in un contesto estremo come quello di un’astronave alla deriva; Joon-Ho opta per toni più vivaci, scomposti, quasi dadaisti, per raccontare il grande caos contemporaneo che cerca di approdare su pianeti alieni ancora inesplorati.
Nel film di Denis tutto è pervaso dal suono impercettibile dello spazio. Le stelle, i pianeti, il buco nero in lontananza, la sensazione di muoversi all’indietro anche se si va avanti: la forza imperscrutabile dell’universo si insinua nella navicella di prigionieri facendo lentamente soccombere ogni tentativo di progetto, di esperimento o di missione.
In Mickey 17 la pervasività parassitaria di un’umanità inebriata della sua follia colonizzatrice riempie lo schermo: i comizi di Kenneth Marshall con i suoi discorsi deliranti su una razza umana pura e incontaminata fatta di esseri superiori, le ricette grottesche di Yfla, gli espedienti e i mezzucci per sopravvivere. Tutto è eccessivo, assordante, cacofonico: un mondo popolato da macchiette prigionieri della propria sagoma. E in questo decalogo di caricature ci finisce dentro anche l’universo stesso, rappresentato a nostra immagine e somiglianza. E ultimamente, la nostra immagine non è proprio un granché. Così, nel caso non ce ne fossimo ancora accorti, Mickey 17, a mo di specchio deformante che rivela le forme in purezza, ce la restituisce senza nessuno sconto.




