Il significato di The Elephant Man: del Saggio sull’Abiezione

Antonio Lamorte

Giugno 18, 2025

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Il Significato The Elephant Man e il Saggio sull’Abiezione

Dr. Frederick Treves: «Signori, nel corso della mia professione ho dovuto vedere molte orribili deformazioni del viso causate da lesioni, morbi, mutilazioni e deformazioni del corpo causate da varie circostanze. Ma non avevo mai incontrato una terribile, degradata versione di un essere umano come questa»

In una filmografia costellata di sogni in frantumi e di tendine rosse che si schiudono su realtà contorte, The Elephant Man è, dicono, l’eccezione. È il film “normale”. Quello che procede senza fronzoli, che segue una trama, che si lascia guardare da chiunque e che ha avuto successo proprio in virtù di questa sua accessibilità.

Strano, in vero, che il concetto di “normalità” venga proprio attribuita ad un film come The Elephant Man. Perché che cos’è, in fondo, la normalità, quando a raccontarla è proprio lui, David Lynch, che per tutta la sua carriera, di regista e non solo, ha interrogato i contorni del visibile?

E cosa significa “accessibilità” quando l’intero film è un’immersione nella mostruosità dello sguardo, nel dolore della carne osservata, nel giudizio che deforma più della malattia stessa?

A teorizzare il concetto di mostruoso nel cinema c’erano già stati giganti come Tod Browning, James Whale e Jean Cocteau, solo per dirne alcuni. Registi a cui David Lynch dichiaratamente si ispira per via della loro capacità di trasformare il mostro in figura tragica, in emblema di un’umanità scartata. Lynch raccoglie questa pesante eredità e la riconfigura secondo le ossessioni del suo tempo, ovvero l’inizio degli anni ’80.

Un’epoca in cui iniziano a sgretolarsi le sicurezze del moderno. Dopo i turbolenti anni ’70, segnati da rivoluzioni culturali, politiche e da un’esplorazione sempre più radicale dei limiti del soggetto (si pensi alla psicoanalisi, al post-strutturalismo, al femminismo), si affaccia una nuova sensibilità, il postmoderno, che mette in crisi le narrazioni dominanti, i confini identitari, e soprattutto il corpo come luogo di verità.

Alla luce di ciò, non è un caso che proprio nel 1980, lo stesso anno in cui The Elephant Man approda nelle sale, Julia Kristeva pubblichi il suo celebre Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione. Filosofa, psicoanalista e semiologa francese di origine bulgara, Kristeva è stata, ed è, una delle voci più incisive del pensiero post-strutturalista, con una capacità unica di intrecciare linguistica, psicoanalisi e teoria della cultura in un sistema di pensiero che scardina le certezze del soggetto moderno. In questo saggio in particolare, lei definisce l’abietto come ciò che si colloca ai margini del senso e dell’identità. Qualcosa, in sostanza, che non è completamente esterno, ma che nemmeno può essere pienamente assimilato.

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L’abietto è ciò che il soggetto deve espellere. Dal corpo, dalla società, dalla coscienza, per poter esistere come tale. Ma questa espulsione non è facile e, soprattutto, mai davvero definitiva. L’abietto ritorna, insiste, ci turba. Sempre. È la materia putrefatta, è il sangue. Si tratta del corpo che perde i suoi contorni. Ed è tuttavia anche il volto dell’altro, del diverso da noi, dell’escluso, e che perciò diventa, ai nostri occhi, mostruoso. È ciò che ci somiglia fin troppo, e proprio per questo ci fa orrore.

«C’è nell’abiezione una di quelle violente e oscure rivolte dell’essere contro ciò che lo minaccia e che gli pare venga da un fuori o un dentro esorbitante, gettato a lato del possibile, del tollerabile, del pensabile»

(Julia Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione)


Pensiamo ora a John Merrick (nel film interpretato meravigliosamente da uno struggente John Hurt), lo sventurato protagonista della vera vicenda riproposta nel film. La sua carne, segnata da una crescita incontrollata e asimmetrica, era il prodotto di quella che oggi si ritiene essere la sindrome di Proteo, una rarissima mutazione genetica che porta alcune parti del corpo a svilupparsi in modo abnorme. Il nome stesso della sindrome rimanda al dio greco capace di mutare forma, Proteo, simbolo di instabilità, metamorfosi e inafferrabilità. John, per via delle sue malformazioni, venne rifiutato dal padre, che smise di mantenerlo economicamente.

Divenne rapidamente incapace di lavorare nelle fabbriche e, dunque, per sfuggire alla povertà, fu costretto a esibirsi nei freak show sotto il nome di The Elephant Man. Un’etichetta che, oramai com’è ben noto, riduceva la sua complessità di essere umano a puro spettacolo dell’orrore.

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John Hurt e Anthony Hopkins in una scena del film


John Merrick: «Vede, la gente ha paura di quello che non riesce a capire… E… Ed è difficile anche per me capire, perché… vede… Mia madre era… bellissima.»


Se dunque sovrapponiamo la vicenda di John Merrick ai concetti delineati da Julia Kristeva, ci accorgiamo di quanto la sua figura incarni, in modo quasi paradigmatico, la condizione dell’abietto. John è un corpo che non può essere fissato in un’immagine definitiva, che sfugge alla forma e perciò diventa, per chi lo osservava, perturbante. Troppo simile per essere ignorato, troppo dissimile per essere accolto.

Questo perché è importante ricordare che il saggio di Kristeva non è tanto un’indagine sul diverso in sé, quanto sul nostro rapporto con esso. Su quel movimento interiore di rifiuto, paura e fascinazione che ci assale quando ci troviamo di fronte a ciò che mina i confini del soggetto. Sulla nostra risposta emotiva, esistenziale, che, in fondo, dice più su chi guarda che su chi viene guardato.

In questo senso, quindi, The Elephant Man, è il film perfetto per incanalare le ossessioni dello sguardo, tanto care al regista del Montana, e delle reazioni che l’oggetto guardato provoca nel guardante. Il film stesso gioca continuamente con questo rapporto malsano. I soggetti che osservano John sono numerosi. Gli spettatori del circo, che lo sbeffeggiano e lo limitano a caricatura di essere umano, oppure i presenti alla stazione ferroviaria, che lo inseguono con un misto di morbosa curiosità e rabbia ingiustificata dovuta all’incomprensione dell’abietto.

A questi sguardi degradanti, propri della maggior parte dei personaggi del film, vi è contrapposto quello del dottor Frederick Treves (uno splendido Anthony Hopkins). Nel momento in cui i due si incontrano per la prima volta, la macchina da presa è infatti più interessata allo sguardo di Frederick che al corpo di John, e la scena si chiude con l’ormai iconico primo piano di Anthony Hopkins con gli occhi lucidi. Un primo piano di compassione che trascende qualsiasi interesse clinico che lo ha spinto a vagare tra i circhi in cerca di fenomeni da baraccone da analizzare.

Alla luce di ciò, possiamo affermare che The Elephant Man è il film più provocante di David Lynch. Dove “provocante” va inteso nel suo senso letterale. È un film che cerca la reazione provocata dalle immagini. La cerca nei personaggi del film. La cerca, probabilmente, più che in ogni altro posto, in noi.

Perché se è vero, come scrive Kristeva, che l’abietto si manifesta come qualcosa che un tempo fu parte di noi, allora forse, a turbarci davvero, non è il volto deformato di John Merrick, ma quella parte di noi che in lui riconosciamo, e che avremmo voluto tenere nascosta.

Una parte che Lynch, nella sua produzione, non ha mai smesso di interrogare. L’abietto, in fondo, non smette mai di tornare. Cambia solo forma. Le identità si sdoppiano e collassano su loro stesse (Mulholland Drive), i confini del sé si perdono nel delirio della percezione (Lost Highway), il reale si disgrega fino a diventare un labirinto (Inland Empire). E al centro di tutto resta sempre quella stessa crepa. L’impossibilità di definire nettamente cosa sia umano e cosa no.

Chi è dentro e chi è fuori. Chi guarda e chi viene guardato.

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  • Antonio Lamorte

    "Una volta mollata l'anima, tutto segue con assoluta certezza, anche nel pieno del caos." - Henry Miller

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