Suona il citofono. Ancora una volta. Le luci della mattina violentano le desiderate oscurità di un luogo imperscrutabile. Nonostante tutto, anche questa notte è finita. Una notte di follia in cui si sono percorsi chilometri di asfalto con la crescente sensazione di un orizzonte irraggiungibile, come un’interminabile e diabolica serenata jazz eseguita da un sax che cadenza i ritmi dell’insonnia.
Quel luogo imperscrutabile in cui la luce si fa pian piano largo è un appartamento. Non ci è dato sapere quale. Qualcuno ha suonato al citofono, per consegnare un messaggio di vitale importanza: «Dick Laurent è morto».
C’è qualcosa di profondamente inquietante nel riflettere ancora oggi, dopo decenni, su Strade perdute. E non perché, nell’atto della riflessione, ci sia il rischio di smarrirsi nelle tortuose vie dell’interpretazione. In fondo, dopo tanti anni di “cultanza”, noi ammiratori abbiamo certamente già trovato un’analisi (senz’altro sbagliata e limitata) con cui crediamo di aver decifrato il rompicapo noir del regista di Twin Peaks. Perché allora quell’inquietudine di fondo rimane?
Il film, per gli stessi elementi narrativi che lo compongono, sprigiona ansia e tormento di per sé. Ma questa, per chi conosce il cinema di Lynch, non è che una piacevole costante. Eppure Strade perdute è dotato di un’insondabile unicità. Un’unicità che parte dalla filmografia del leggendario cineasta e forse addirittura si protrae attraversando tutte le altre filmografie mai concepite.
Strade perdute è il film di Lynch che, più di tutti, riflette sull’immagine. Sul suo fascino ammaliante, sulla sua pericolosità, sul sentimento di chi quelle immagini le genera. Contiene quella che è la scena più importante del cinema lynchiano: quella in cui i due investigatori in una discussione con Fred (Bill Pullman) notano uno strano e fondamentale particolare: non ci sono fotografie in quella casa.
«Preferisco ricordare le cose a modo mio»
La fotografia è un’immagine pericolosa. È l’istantanea che imprigiona la realtà, reiterandola pericolosamente e senza alcuno scrupolo ogni volta che un occhio malcapitato vi posa lo sguardo. Un oggetto dunque inaccettabile. Il ricordo, d’altro canto, non presenta questa irrispettosa perversione. Anzi, il ricordo si presta a rimodellamenti di pregevole fattura, in cui situazioni e ruoli molto convenientemente si capovolgono, si compie sempre l’azione giusta e ogni colpa viene lavata. Tramite ammirevoli processi di rimozione di alcuni aspetti della nostra vita (una forma di autocensura che la nostra mente compie, direbbe Freud), è possibile plasmare situazioni che non sono mai avvenute, o che sono avvenute in modo diverso rispetto a come la nostra percezione ce le ripropone.
È proprio stata la percezione la grande protagonista del cinema di David Lynch. Quel modo di vedere e percepire le cose che, attraverso il mezzo cinematografico, viene rappresentata in tutta la sua splendida forma. Dal bianco e nero allucinato di Eraserhead al digitale rumoroso di Inland Empire, passando per il rabbioso montaggio dell’energetico Wild at Heart. Tutto il cinema di Lynch è percezione di eventi e sensazioni. Percezioni che, per definizione, trovano la loro caratteristica principale nell’infinita limitatezza della soggettività.
Limitatezza che trova conferma quando quelle immagini, talmente pericolose da dover essere evitate per sentirsi al sicuro, si presentano nella loro formidabile assurdità. Emblematica, in questo senso, è la celebre scena del telefono. Ad una festa Fred viene approcciato da un Uomo Misterioso, il quale sogghignando dichiara di trovarsi in realtà nell’abitazione di Fred in quel preciso istante. Dinanzi a tale dichiarazione Fred è comprensibilmente confuso, al ché l’uomo misterioso gli intima, progendogli un telefono, di digitare il suo numero di casa. Fred, perplesso, fa come gli viene detto. Qualcuno risponde. L’Uomo Misterioso. Davanti a lui. Dentro casa sua.
Dissonante è il contrasto tra l’immagine che si presenta nella sua natura oggettiva e il contenuto della stessa, assurdo, inspiegabile e proprio per questo terrorizzante. Si tratta probabilmente della scena che più di tutte si fa manifesto di questo concetto tematico che sta alla base di tutta la produzione di David Lynch. Fred, e noi spettatori con lui, smette di credere ai propri sensi. Fino a che punto le nostre percezioni possono assorbire le nostre esperienze, separando in modo netto ciò che è possibile da ciò che non lo è? Fred ha una personalità instabile che porta la sua mente a deragliare su binari oscuri più volte nel corso del film. Ma siamo poi così diversi da lui quando entriamo in contatto con la spaventosa natura che si cela dietro al concetto di immagini (cinematografiche)?
Strade perdute però non è solamente il racconto di una percezione alterata che si esplica in una forma che va di pari passo con il contenuto. È anche e soprattutto micidiale riflessione su quella soggettività in grado di plasmare universi grandiosi e terribili.
Il potere della mente, come già detto, offre diverse potenzialità, specialmente quando il discorso percettivo viene consciamente staccato dalla realtà. Il film essenzialmente si divide in due metà, opposte quasi in ogni aspetto. Da una parte un uomo impotente, Fred, che consuma sfiancanti rapporti nell’istituzionalità del matrimonio, dall’altro un ragazzo, Pete, che compiace facilmente una donna sposata. La donna è fondamentalmente la stessa. Da uccidere, in un caso, da salvare, in un altro. Fred e Pete sono personalità della stessa mente. Uno dei due è l’alter ego generato dall’altro per sfuggire agli orrori della realtà.
Che sia proprio Pete la personalità generata da Fred per rimodellare una realtà sconveniente? «Compiuto il lavoro di interpretazione, ci accorgiamo che il sogno è la soddisfazione di un desiderio», afferma Freud nel suo L’interpretazione dei sogni. E se si avalla questa teoria, diversi pezzi del puzzle combaciano. Fred ribalta la sua situazione nella realtà. Ha regolari rapporti con la sua donna, rapporti caratterizzati da veemenza e godimento, contrapposti a quelli mesti e desolati compiuti da lui stesso. La trama, forse troppo finta e costruita, ruota attorno ad una donna da salvare. La stessa che, in uno scatto di gelosia, ha brutalmente assassinato.
Queste associazioni potrebbero rappresentare il sogno che si sgretola. Perché se è vero che, sempre per citare Freud, «i sogni sono i custodi del sonno e non i suoi disturbatori», è altrettanto vero che una realtà troppo dolorosa ed invadente da essere sepolta nei recessi della mente può tornare prepotentemente per rivendicare il suo status di unico ed incontrovertibile luogo in cui vivere.
Ai collegamenti tra i vari personaggi, si aggiunge infine quella drammatica riflessione sul potere dell’immagine. Verso la fine del film, un proiettore si accende. Si intravedono delle immagini proibite. Una donna ha dei furiosi rapporti con tanti uomini. Il tradimento è confermato dai fotogrammi. Unici. Non interpretabili. La verità tramutatasi in pura forma. L’Uomo Misterioso, protagonista della celebre scena del telefono nella prima parte del film, ritorna portando con sé l’arma più pericolosa di tutte: la telecamera. Accesa e colta nell’atto del filmare per di più.
Straordinario come Lynch, che più di tutti abbia fondato la sua carriera sull’interpretazione soggettiva dell’immagine, ora gli conferisca questa marmorea caratteristica di verità, di origine incontestabile, di principio arcaico delle sensazioni, dell’universo e quindi della vita stessa.
Tutto si sgretola. La casa di legno esplode e si ricompone con uno straniante effetto rewind. Tutto è destinato a ripetersi nella circolarità di questa storia di follia. Se davvero le due sezioni del film sono collegate da un processo in cui l’una genera l’altra, la casa di legno che esplode è la finzione che svanisce in tutta la sua violenta fallibilità, e il suo ricomporsi è naturalmente il fermo riassestarsi di una realtà immaginifica da cui è necessario fuggire.
E dunque, che questa fuga dalla realtà cominci. Di nuovo. Tuttavia prima di incamminarsi verso una meta ignota, c’è ancora un ultimo compito da svolgere. C’è un messaggio da consegnare.
Suona il citofono. Ancora una volta. Le luci della mattina violentano le desiderate oscurità di un luogo imperscrutabile. Nonostante tutto, anche questa notte è finita. Una notte di follia in cui si sono percorsi chilometri di asfalto con la crescente sensazione di un orizzonte irraggiungibile, come un’interminabile e diabolica serenata jazz eseguita da un sax che cadenza i ritmi dell’insonnia.
Quel luogo imperscrutabile in cui la luce si fa pian piano largo è un appartamento. Quello di Fred. Lui stesso ha suonato al citofono, per consegnare un messaggio di vitale importanza: «Dick Laurent è morto». Già morto. Ancora una volta morto. Ancora e per sempre morto.