Blade Runner (1982) – L’essenza della vita
«There’s no chance for us,
It’s all decide for us.
This world has only one sweet moment
Set aside for us.
Who wants to live forever?»
(The Queen, Who Wants To Live Forever)
Dall’uscita nelle sale nel 1982, passando per il Director’s Cut del 1992, al Final Cut del 2007, Blade Runner trascende dal tempo e infrange le barriere della mortalità, trasformandosi da film sui replicanti a film replicante di sé stesso. Persino il finale, e di conseguenza l’interpretazione generale della pellicola, cambia nelle varie versioni: dall’happy ending del 1982, al finale ambiguo nella versione del 1992 e del 2007.
Blade Runner significa colui che corre sul filo del rasoio, ma questa definizione cambia prospettiva con lo scorrere del film. Inizialmente indica la figura del protagonista, per poi rivelarsi una sottile linea di confine tra l’apparire e l’essere, che lentamente si disgrega fino all’intrecciarsi delle due dimensioni.

1. Il problema dell’identità
Los Angeles, anno 2019. In una città che prende le sembianze di Hong Kong, si stagliano alti edifici ottocenteschi e imponenti piramidi, macchine volanti e luci al neon, in un connubio di antichità e futuribilità che crea disagio.
Le strade appaiono caotiche e dominate dalla violenza, coperte di sporcizia e di disordine, e la pioggia battente che cade durante tutto il film rafforza questa sensazione. La popolazione sovraffollata abita tra le rovine, abbandonata a un destino fatto di degrado e alienazione sociale: domina il più totale vuoto affettivo, che le persone riempiono con vecchie fotografie e con giocattoli parlanti. Il caos e il disorientamento che si riscontra per le vie della città, si rispecchia anche nel singolo soggetto, in preda a una piena crisi di identità.
La tecnologia ha permesso la creazione di automi simili agli umani, detti Replicanti, utilizzati come schiavi e dotati di capacità fisiche e intellettuali superiori agli uomini, ma con longevità di quattro anni. Sei replicanti, del modello più evoluto, fuggono dalle colonie e si dirigono a Los Angeles, in cerca del loro creatore.

2. Essere o non essere nel Blade Runner
Con la creazione dei Replicanti si abbatte la barriera tra il vero e il verosimile, e si passa al dualismo tra la superficie e l’interiorità del corpo. L’esterno è disegnato su modelli simil-umani ed è indistinguibile da essi, mentre l’interno è riempito con pensieri e ricordi estranei. Il Replicante si identifica perciò in un passato che non gli è mai appartenuto, tramite fotografie provenienti da altre esistenze. Per questo la natura di ogni pensiero dei replicanti, così come i loro sogni, danza tra la verità e la finzione, su quel filo del rasoio (Blade Runner) tra l’essere e l’apparire che dà senso al titolo.
Ecco che ci viene ossessivamente proposta la presenza dell’occhio (la pupilla iniziale, il test, il gufo, il progettista, la morte del Dr. Tyrell). Se è vero che l’occhio è lo specchio dell’anima, la mancanza di essa all’interno di un replicante rende la pupilla apatica e impassibile.

La lotta di classe
A completare la sensazione di estraniamento un ruolo importante lo gioca la luce, sempre artificiale, che si presenta prima come una lama sottile, poi irradiando tutto come una luce di sorveglianza. Ciò fornisce al film una lettura in chiave di lotta di classe: il Replicante rappresenta l’uomo in crisi di identità nella società globale del futuro.
Seguendo i passi ondivaghi di Rick Deckard, agente incaricato di “ritirare” i Replicanti ribelli, si vive un’odissea interiore, in cerca di risposte alle domande principali della vita.




