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Dark- La vuota illusione della linearità del tempo

Elena Matassa

Gennaio 12, 2018

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Nella piovosa e angusta cittadina di Winden accadono strani eventi che partono con delle sparizioni improvvise di bambini, che a noi, dopo Stranger Things, suonano familiari. Ma la serie Dark, prima produzione tedesca di Netflix, somiglia effettivamente poco all’altra amata americana serie. Come al solito, i tedeschi sanno essere filosofi e contorti in un modo talmente geniale da essere quasi irritante… potevano volerci solo loro ad arrivare a tali brillanti risultati.

Le dieci puntate costituiscono un labirinto oscuro, che richiede un certo sforzo intellettuale perché lo spettatore si ambienti al suo interno, e venga condotto sino al cuore delle tragiche domande che solleva questa storia.

Innanzitutto, si fa una certa fatica perché, all’inizio, sembra che i personaggi si somiglino un po’ tutti. Sia esteticamente, sia negli atteggiamenti. Poi si va avanti, e si nota che le somiglianze che alimentano la confusione si moltiplicano, perché di molti personaggi vediamo anche la versione passata.

Sono tre le dimensioni temporali tra quali si districa la vicenda: il 1986, il 1953, il 2019, con una precisa distanza di trentatré anni tra l’una e l’altra. Muovendosi tra note teorie fisiche, filosofiche e religiose (chi ha scritto Dark ha ridato una bella spolverata a Einstein, Nietzsche, Bergson e altri, oltre che, appunto, a vari testi religiosi), la sceneggiatura si spinge fino al fondo di un preciso ragionamento sul tempo e sull’ipotesi dei viaggi temporali.

Proviamo ad esplicitare l’inquietante teoria che la serie propone, cercando di non fare eccessivi spoiler.

La prima puntata è aperta dalla frase di Einstein: “la distinzione tra passato, presente e futuro è solo un’illusione ostinatamente persistente”. Infatti, la domanda chiave per comprendere cosa ci sia a monte delle sparizioni di bambini non è chi o come le abbia provocate ma quando. Pian piano alcuni personaggi scoprono dove sono andati a finire quei bambini: forse il personaggio più importante e più approfondito psicologicamente che scopre la verità è il solitario Jonas, figlio dell’uomo suicidatosi nella prima scena. Suo padre, infatti, lascia una lettera con l’indicazione che venga aperta solo a una determinata data e a una determinata ora. E la lettera, come le motivazioni del padre di Jonas, resteranno enigmatiche fino a serie inoltrata. Ciò che la lettera svelerà, è la vertigine concettuale che fa accapponare la pelle di Jonas, è ciò che suscita in lui un’incredulità dolorosa che poi, per tutta la vita, desidererà intensamente di dimenticare. Ma non può dimenticare. Perché “colui che conosce la verità è colui che è fuori posto”, per sempre; mentre chi la ignora non sta soffrendo e non sta sbagliando.

Sofferenza e colpa sono causati dalla verità, ma sono anche, insieme alla mancanza di libertà, l’unica condizione umana possibile, l’orizzonte esistenziale degli abitanti di Winden.

Nei tre momenti storici in cui è ambientato il fatto, si aprono dei varchi temporali generati da un buco nero. Ma il problema non è, come in altre storie fantascientifiche su questo tema, che chi torna indietro nel tempo deve stare attento a non farsi notare da nessuno, o a non influenzare troppo gli eventi passati per non cambiare drasticamente il futuro. Perché, come presto si scopre, qui gli eventi tutti sono collegati da una catena causale generata in entrambi i sensi: non solo il “prima” influenza il “dopo”, ma anche il “dopo” influenza il “prima”. Anche il futuro influenza il passato. Ma ciò avviene per un semplice motivo. In realtà il “prima” non è davvero prima: è solo, appunto, un’illusione. Il tempo non è nemmeno lontanamente lineare. Per questo motivo, spaventosamente, i tentativi di cambiare un brutto futuro sono già inclusi nel passato: non ci può essere nessun cambiamento, ogni cosa è da sempre legata all’altra e non si può uscire dal cerchio.

Perché compiamo le nostre scelte? In fondo, ognuno di noi crede ci sia un motivo preciso e personale a monte di ogni decisione, un motivo essenziale e unico per i nostri gesti, che noi solo comprendiamo fino in fondo e che abbracciamo completamente. Un motivo che ci rasserena, perché ci fa pensare di essere liberi e consapevoli artefici di noi stessi e della nostra vita. Ma a Winden si scoprono i meccanismi della verità ed emerge che no, non è così che funziona.

Un affascinante personaggio secondario, l’orologiaio, pronuncia ad un certo punto queste parole: “è così importante se le scelte che facciamo sono il risultato di una serie di connessioni causali legate ad un nesso tra loro o se magari derivano da uno strano e indefinito mio sentimento? È possibile che tutta la mia esistenza non sia stata altro che un lungo percorso diretto a questo istante, che io sia il tassello di un puzzle di cui non riesco a vedere l’immagine e che non posso influenzare?” Inutile cercare di capire (figuriamoci di cambiare) cosa è venuto prima, cosa c’è all’origine di una scelta individuale. Il singolo personaggio non è importante, sbiadisce grigio nella lotta tra bene e male, assolutamente impotente.Ed è questo il merito più grande della riflessione suggerita dalla serie, già accennato sopra: che la descrizione di una teoria sul funzionamento del tempo vuole in realtà alludere ad una condizione esistenziale di prigione deterministica, di piccolezza e di grigiore umano – come grigio è lo scenario di tutta la serie, resa esteticamente raffinata da una fotografia impeccabile e sonoramente espressiva da musiche insostituibili con suoni a cappella da incubo.

Nonostante ciò che pensano alcuni personaggi credenti o altri profondamente malvagi, non esiste una verità più grande di cui farsi custode: persino chi riesce nel terribile sogno di oltrepassare il proprio tempo, scopre solamente che chi cerca la verità non può che perdere se stesso nel dolore.

 

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