Hannibal – La psicanalisi del “gusto” estetico

Daniele Girardi

Febbraio 8, 2018

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Fin dall’antichità tra i numerosi tentativi dell’uomo di fuggire alla morte, si annovera il rifugio nell’arte. L’uomo diventa “artista” quando riesce a toccare le persone che lo circondano, quando riesce a trasmettere qualcosa, quando stabilisce una connessione tra una sua idea, l’opera d’arte (l’idea fatta realtà) e l’osservatore. Se l’artista è condannato a morire, il legame che si crea tra pubblico e opera è destinato a sopravvivergli rinnovandosi nel tempo nei nuovi spettatori. Se il messaggio viene colto, l’idea sarà trasmessa nei secoli e con essa la memoria dell’ideatore.

Se però l’omicidio diventa l’idea e l’artista diventa un serial killer cannibale, probabilmente “l’artista” in questione è il Dr. Hannibal Lecter.

Il motore che muove le azioni di questo stimato psichiatra, uomo di grande cultura, grande esperto di musica e teatro, uomo brillante e posato, eminente rappresentante della società borghese, cuoco sublime e raffinato organizzatore di feste, è un estetico desiderio di celebrazione della propria astuzia, del proprio potere, del proprio gusto. Letteralmente.

Una mente così acuta tende sempre alla curiosità, la spinta che la fa fremere è la continua ricerca di stimoli: e cosa fa sentire più vivi di sfidare la potenza di Dio stesso con quella del proprio raffinato intelletto?

Will: Dio non può salvare nessuno di noi perché non è elegante. L’eleganza è più importante della sofferenza.

Abigail: Ti riferisci a Dio o a Hannibal?

Will: Hannibal non è Dio. Non riuscirebbe a divertirsi a essere Dio. Sfidare Dio, è questo il suo divertimento.

C’è un vero e proprio divertimento, una sfida mentale, come un qualunque gioco in cui si riesca a eccellere.

Dio e la morte

Non solo un gioco tuttavia, c’è una salda e ragionata architettura filosofica dietro l’agire di questo cinico psicanalista.

Hannibal: Anche a Dio deve piacere uccidere. Lo fa in continuazione. E noi non siamo fatti a sua immagine?

Will: Questo dipende a chi si chiede, è ovvio.

Hannibal: Dio è eccezionale. Ha fatto crollare il tetto di una chiesa su trentaquattro fedeli, mercoledì in Texas, mentre cantavano.

Will: E Dio ha provato piacere a farlo?

Hannibal: Si è sentito potente.

La concezione di Dio di Hannibal è legata a quella di un Dio potente e spietato come era nell’Antico Testamento. La potenza di infliggere dolore e lasciare che le cose si evolvano seguendo il corso di un destino tracciato da dietro le quinte, suggerendo (ma mai imponendo direttamente) una direzione, è ciò che accomuna Dio a Lecter.

Dio ha il potere di spezzare vite a suo piacimento e ogni accusa a lui rivolta finisce col perdersi in un vano lamento nei confronti di un invisibile burattinaio, che tiene ben saldi i fili delle sue marionette senza mai mostrarsi al pubblico, ineffabile e inconsistente. Proprio come Hannibal.

La morte solitamente temuta in quanto ultimo atto dello spettacolo della vita e associata alla sofferenza viene considerata invece dal nostro serial killer come un paciere a tutte le sofferenze, a tutto l’odio, a tutte le fatiche, a tutto il dolore della vita e viene anzi considerata l’ineluttabile epilogo che attende tutto il divenire La resa dei conti che deve spronare ad apprezzare appieno ogni attimo, la bellezza insita nelle cose, nell’arte, in ogni relazione sincera, lo sprone per la migliorìa personale, per l’esaltazione di sè,  per intenti sempre più nobili.

Hannibal: Ho sempre trovato l’idea della morte confortante. Il pensiero che la mia vita potrebbe finire in ogni momento mi rende libero di apprezzare pienamente la bellezza e l’arte e l’orrore, e tutto ciò che il mondo ha da offrire.

E la forma d’arte che Hannibal predilige sicuramente è la cucina e si mostrerà come anch’essa sia permeata del concetto di migliorìa.

Cannibalismo e “nobilitazione”

Essendo la morte confortante, l’atto di uccidere non è così spietato come comunemente giudicato.

Non solo, il Dr.Lecter, non va mai dimenticato, è anche psichiatra e conosce bene i legami tra i sensi, eredità primordiale della parte animale dell’uomo, e la psiche umana. I sensi stessi di questo garbato serial killer sono esaltati: ottimi riflessi, forma fisica invidiabile, un olfatto sviluppato oltre la norma, ma è il gusto il senso che più lo caratterizza.

Se si mette nel pentolone una valenza catartica della morte, una tendenza estetica e un così stretto legame col senso del gusto, si otterrà uno squisito banchetto presentato con eleganza dal miglior cuoco cannibale che si possa incontrare:

 Hannibal: Non si è trovato l’anello mancante tra la scimmia e l’uomo, perché ce lo siamo mangiato

Numerose volte nel corso della serie Hannibal si diletta a veder mangiare alle persone a cui ha preparato la cena, altre persone che ha precedentemente ucciso. Non è mai spinto però da un senso sadico, o da un delirio incontrollato, sia ben chiaro: il banchetto è sacro. E’ al contempo un modo di stringere nuovi legami e un modo per dare un definitivo addio a vecchi rapporti.

Abigail, la ragazza figlia di un altro serial killer poi morto per mano di Will Graham, viene uccisa a malincuore e data in pasto a Will Graham stesso, per deteriorarne la mente e rinsaldare la loro amicizia, altre vittime sono date in pasto all’ispettore di polizia Jack Crawford come atto di sfida e di beffa:

Will: Se lo Squartatore uccide, Hannibal Lecter sta organizzando una cena; tu e io potremmo aver sorseggiato vino mentre ingoiavamo le persone a cui volevamo rendere giustizia, Jack.

Se però si vuole davvero cogliere l’incredibile valenza che il Dr. Lecter attribuisce al cannibalismo, il caso di Abel Gideon è esemplare. Il Dr. Gideon era un serial killer che andava in giro dicendo di essere “lo squartatore di Chesapeake” (pseudonimo di Hannibal). La resa dei conti non tarda, Hannibal lo cattura e gli prepara una deliziosa cena in cui la portata principale è… la sua stessa gamba.

Hannibal: “le sue gambe non le sono più utili, ha una frattura della vertebra T-4, questo è un uso molto più pratico di quegli arti. La tragedia non sta nel morire, ma nell’essere sprecati.”

Hannibal: “Voleva conoscere lo squartatore di Chesapeake? Ora ne ha l’opportunità.”

Gideon: “Vuole che io stesso sia la mia ultima cena?”

Hannibal: “Si”

 

In questo caso era il corpo di Gideon a essere sprecato, ma se Hannibal reputa che stiate sprecando la vostra vita, non credete che si faccia scrupoli a “nobilitarvi” trasformandovi in portate squisite.

Ah… e ricordate che a tavola non bisogna mai essere scortesi col cuoco!

“Mangia chi è sgarbato” è il principio di Hannibal. Se sei un porco come essere umano diventerai la sua pancetta. Perciò non essere sgarbato nei suoi confronti e non ti ritroverai sul menù.”
(Bryan Fuller – ideatore della serie “Hannibal”)

La cucina per Hannibal è un modo dunque per instaurare un legame con la vittima sia dal punto di vista sensoriale, sia dal punto artistico tramite la ricercatezza e l’elaborazione dei piatti, ma soprattutto un legame di stima e esaltazione. Se si parla di un rapporto di stima e rispetto di sicuro non si può fare a meno di pensare al personaggio di Will Graham.

Will Graham

La serie tv Di Bryan Fuller, al contrario dei film, presenta Hannibal non come unico protagonista, ma si focalizza sul suo rapporto simbiotico con Will Graham, professore universitario di psicologia criminale e collaboratore dell’FBI.

Lascio le presentazioni al Dr. Lecter:

Hannibal: Il problema di Will sono i troppi neuroni specchio. La nostra testa ne è piena quando siamo bambini, dovrebbero aiutarci a socializzare e poi andare via, ma… Will si è aggrappato ai suoi, cosa che rende il sapere chi è una sfida. Quando Jack lo porta sulla scena di un delitto in realtà l’aria di per se è satura di grida. In quei luoghi lui non riflette soltanto, lui assorbe.

Hannibal: Will ha un’incredibile, vivida immaginazione. Bellissima. Pura empatia. Non c’è nulla che non capisca, e questo lo terrorizza.

La peculiarità di Will Graham è dunque la capacità empatica di immedesimarsi con i serial killer su cui indaga, cosa che lo rende un ottimo profiler, ma che lo annienta a livello psicologico. E così gli viene affidato il più stimato degli psichiatri in circolazione. Inutile dire che è anche il più interessato al suo caso:

Hannibal: Nel momento in cui gli altri uomini temono l’isolamento, il suo Will le è diventato comprensibile. È solo perché è unico.

 Hannibal: Io vedo me stesso in Will.

Hannibal: Ho una grande comprensione del tuo stato mentale e tu comprendi il mio. Siamo identici. Questo ti dà la capacità di ingannarmi e di essere ingannato da me.

Hannibal per la prima volta nella sua vita ha trovato una persona che è in grado di comprenderlo davvero, non resta che renderlo anche la persona che possa accettarlo. Tenta dunque di diventare suo amico e, tramite la psicanalisi, con un astuto esercizio intellettuale, spinge e alimenta la parte oscura di Will Graham al punto di sostituirsi al suo stesso inconscio:

Will: Prima ascoltavo i miei pensieri dentro la mia testa sempre con lo stesso tono, timbro, accento, come se le parole uscissero dalla mia bocca.

Hannibal: E ora?

Will: Ora… la mia voce interiore è come la tua.

Il rapporto morboso e profondo che Hannibal instaura con Will Graham è il vero motore della serie, le vicende di uno sono indissolubili da ciò che accade all’altro e le differenze tra i due si assottigliano sempre più avanzando nell’arco narrativo. Due entità ben distinte all’inizio della serie, dopo un accurato lavoro psichiatrico e un susseguirsi di dolore, sangue e reciproca condivisione terapeutica sono oramai vincolate l’una all’altra in un unico essere, due corpi e una sola anima. L’allievo che si fonde al maestro, uno l’anima gemella dell’altro, e Hannibal, lo squartatore di Chesapeake, come estremo atto di amore malato, rinuncia a ciò che gli è più caro, la libertà, consegnandosi di sua spontanea volontà alla polizia in modo che Will “possa sempre sapere dove trovarlo”. Ma forse Will non ha davvero bisogno di trovare Hannibal, ma piuttosto di ritrovare sè stesso.

Il vero carnefice

Procedendo con la serie ci si accorge infatti che oramai si è magnetizzati sempre più da Hannibal e che in realtà dietro a Will Graham siamo celati noi stessi e la parte attratta indissolubilmente dal nostro carnefice che, infliggendoci dolore, mostra comunque un’attenzione nei nostri riguardi che non può essere ignorata.

Will: Hai ragione; noi due siamo identici. Tu sei solo quanto me, e siamo entrambi soli senza l’altro.

Will: Non ho mai conosciuto me stesso così bene come mi conosco quando sono con lui.

E seppure non sia facile ammetterlo, in realtà addentrandosi ulteriormente nel delirio oscuro che questa serie rappresenta, ci si accorge che il nostro vero carnefice non è tanto il serial killer, che oramai potremmo quasi definire un amico, bensì ancora una volta noi stessi e i pensieri che crescono in noi e ci tormentano:

Hannibal: Nonostante la mia esperienza non potrei mai prevedere del tutto le tue azioni. Io posso nutrire il bruco e sussurrare alla crisalide, ma quello che nasce segue la sua natura e non dipende da me.

Will: Voglio un’ammissione. Voglio che tu ammetta quello che sei.

Hannibal: Pretendi che mi autodenunci come mostro mentre tu rifiuti di vedere quello che cresce al tuo interno?

L’unico modo per affrontare i nostri problemi è probabilmente ammettere di averne, imparare a conviverci e citando un illustre psicanalista:

Hannibal: La terapia funziona quando desideriamo conoscere noi stessi per come siamo, non per come vorremmo essere.

Qual è allora la differenza tra un serial killer e una persona qualunque? La risposta che bisogna tenere ben presente, non è tanto da ricercarsi nel fatto di aver commesso o meno omicidi, ma ce la fornisce Will Graham in uno dei tanti dialoghi con Hannibal:

Hannibal: Provi piacere dalla crudeltà e poi ti rimproveri di goderne.

Will: Tu ne godi. Io la tollero. Io non ho il tuo appetito. Addio, Hannibal.

Leggi anche:Dexter – L’umana ricerca di comprensione di un apatico serial killer

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