Descrivere come le convenzioni sociali ci rendono schiavi e, in generale, comprimono la vera natura di ogni individuo, spesso poco matura, fino a giungere a una sonora esplosione liberatoria. Questo è ciò che Roman Polanski si ripropone, con successo, di evidenziare in Carnage.
La pellicola si svolge in una sola giornata in cui Alan e Nancy Cowan (interpretati da Christoph Waltz e Kate Winslet) vengono invitati a casa di Penelope e Michael Longstreet (interpretati da Jodie Foster e John C. Reilly) per risolvere una questione riguardante i loro figli. Infatti, qualche giorno prima, durante una lite al parco, il figlio dei Cowan ha colpito in pieno volto il figlio dei Longstreet. Il confronto tra le due coppie sull’argomento passa progressivamente da toni pacati e cordiali a comportamenti di offesa e maleducati, che fanno trovare spazio anche ad accuse interconiugali. Tale passaggio avviene con una gradualità così impercettibile da lasciare lo spettatore incredulo nell’essere stato trasportato senza rendersene conto dalla calma alla tempesta.
Analizzando il film da una prospettiva esterna si può facilmente notare come solo alla fine, quando l’andamento della discussione si fa più pesante, vengano esternate la vera natura e la reale volontà di ognuno dei personaggi. Essi provano ad interpretare dei ruoli che non si addicono affatto alle loro spontanee pulsioni e, quando risulta impossibile evitarlo, l’interpretazione di questi ruoli crolla rumorosamente lasciandoli caratterialmente nudi di ogni artificio.
Polanski è solito ripresentare più volte questo tipo di finzioni nei suoi lungometraggi. È possibile ritrovarle in film più attempati, come L’inquilino del terzo piano, ma anche tra film più recenti, dove a Carnage si aggiunge Quello che non so di lei.
Analisi e riflessioni di questo tipo hanno però la loro principale origine nella letteratura di Luigi Pirandello che, nelle sue varie opere, riassume il tutto in un concetto sintetizzante: ognuno di noi porta una maschera; ci può essere imposta o può essere voluta ma il risultato non cambia, nessuno è mai veramente sé stesso fino in fondo.
Quando questo modo di agire emerge collettivamente, la realtà che ne deriva risulta distorta e ben lontana da quella cruda e genuina naturalezza che risiede in ogni persona. Il palcoscenico rappresentato dalla società vede recitare dei protagonisti che sono assolutamente distanti dal conoscere la verità, impossibilitati dal filtro che la maschera indossata da ciascuno di loro rappresenta. Una visione siffatta può ricondurre, senza alcuna forzatura, alla filosofia di Arthur Schopenhauer, che nella sua opera fondamentale dal titolo “Il mondo come volontà e rappresentazione” tratta questa tematica attraverso il velo di Maya, dove quella maschera, potremmo dire, si rivela essere il prodotto di sovrastrutture sociali e morali che l’uomo ha necessitato di autoconvincersi che fossero imprescindibili. Infatti, secondo il filosofo tedesco, questo oggetto, il velo di maya, dalle caratteristiche metafisiche impedisce agli individui di avere una visione nitida della realtà, causando al contrario un offuscamento delle percezioni che nega la vera consapevolezza.
Il dato di fatto della presenza del velo di Maya (trasposizione della maschera nella collettività) si fa cardine di Carnage, inducendo l’insorgenza di dubbi sulla possibilità di caratterizzare ciò che ci circonda. Sebbene un’incertezza del genere sembri già imponderabilmente destabilizzante, non è né l’unica né la più difficile da digerire; infatti, essa prende forma dalla proiezione del presupposto della maschera sugli altri, ma cosa succede quando associamo questa ideologia a noi stessi?
L’effetto è un completo annichilimento. Finché un’insicurezza di questo tipo resta confinata all’esterno della sfera personale la cosa ci colpisce relativamente, ma quando rivolgiamo a noi stessi tali interrogativi diamo inizio alla crescita di una crisi di identità, che diventa sempre più profonda se relazionata a un’ossessione di dare risposte che aumenta di intensità.
Chi sono?
Carnage, mettendo in primo piano soggetti che sono abituati e inizialmente abili nel non mostrare loro stessi per come sono, fa porre questa domanda autoreferenziale allo spettatore.
Viene quindi messa in discussione la personalità ed il carattere proprio di ogni uomo. La maschera pirandelliana è così adesa al volto da non lasciare margine d’azione ad alcun genere di fattore che, in modo innegabile e discriminante, possa dare la possibilità di affermare con fermezza di sapere chi siamo in termini assoluti.