Cinderella Man – Una ragione per lottare rientra a pieno titolo in quella (non troppo breve) lista di film che mi hanno segnata, facendomi emozionare.
Siamo all’inizio della grande depressione del ’29, e James J. Braddock, pugile, costretto dalla necessità a gareggiare con una frattura alla mano destra, perde una serie di incontri, ed è costretto a un abbandono alla boxe che sembra definitivo.
Durante la crisi economica fatica a trovare lavoro, e mantenere la sua famiglia inizia a essere un’impresa ben più ardua di quelle che era abituato ad affrontare sul ring.
In seguito, quando un altro pugile da forfait con poco preavviso a un match importante, contro quello che era considerato il numero due al mondo, Braddock conquista quella che è la sua seconda chance.
Un altro match dove poter farsi valere, l’ultima occasione per poter strappare sua moglie e i suoi figli a una vita di miserie. L’esito dell’incontro era dato per scontato, sembrava ovvio che Braddok avrebbe perso, dopo tutto il tempo che aveva trascorso senza combattere, e tenendo anche conto del fatto che nemmeno nel suo periodo migliore aveva mai combattuto a quei livelli.
Eppure James vince, concretizza l’occasione che il fato gli aveva offerto e, soprannominato Cinderella Man, inizia la scalata per arrivare a vincere la cintura di campione del mondo dei pesi massimi.
Questo film piace perché è una storia vera, una storia che parla di lotta e di riscatto, e della necessità che fa grande l’uomo.
Cinderella Man: Il simbolo
Quando si parla di film biografici, che raccontano vite realmente vissute, c’è sempre un doppio livello di significato che bisogna considerare: come noi viviamo la storia, così come è trasposta sulla pellicola, e come coloro che hanno assistito alla storia dal vivo l’hanno vissuta.
All’epoca era la crisi del ’29, al giorno d’oggi c’è quella della bolla immobiliare, i cui dolorosi strascichi sono ancora visibili: per gli spettatori degli incontri di Braddock di un tempo, e per noi spettatori del film basato su di lui, la storia sembra raccontare lo stesso messaggio, un messaggio che ora come allora ci infervora ed è difficile scordare.
E’ una storia piuttosto semplice, a dire il vero, potremmo quasi dire una delle storie più vecchie del mondo, praticamente un cliché.
Parte prima: C’è un uomo, che viene dato per finito.
Parte seconda: Il destino gli dona una seconda occasione.
Atto finale: Lui la sfrutta e arriva al successo.
Più semplice di così?
In un epoca di difficoltà e ristrettezze, però, una storia del genere è in grado di tramutarsi nella linfa vitale dei sogni e delle speranze della collettività degli uomini, che si riconoscono nella parte prima della storia.
Quegli uomini che, allora come adesso, grazie a una testimonianza del genere riescono a sfuggire alle tenaglie dello sconforto e dell’amarezza, e iniziano finalmente a reagire.
“Lui ce l’ha fatta, allora è possibile. Allora forse posso farcela anche io”.
Questa è la storia di James J. Braddock, questo il suo messaggio.
E così il pugile diviene un simbolo, il simbolo eroico dell’uomo che non si arrende di fronte alle avversità e che, aiutato dalla fortuna, riesce a emergere e a ottenere la gloria.
Questo modo di pensare, che è quello della società borghese – liberale, annienta gli status e i preconcetti, e da a chiunque l’occasione di raggiungere il successo o, perlomeno, la possibilità di sognare di raggiungerlo.
Ingegno e fortuna, dunque: talento e destino che annientano classi sociali e status rendendo gli uomini uguali, perché la felicità è una cosa semplice, ed è alla portata di chiunque abbia il coraggio e la forza di andare sino in fondo.
In una società come quella del ’29 una storia del genere parlava di speranza, rassicurava gli animi dicendo che non tutto era finito, e che quella in cui erano caduti forse non era una voragine dalla quale era impossibile anche solo pensare una risalita, ma un semplice tunnel che, per quanto lungo e oscuro fosse, aveva pur sempre uno sbocco che, con ostinazione e perseveranza, chiunque avrebbe potuto raggiungere. E per farlo bastava sopravvivere.
E in una società come la nostra?
Nel mondo di oggi cos’ha da insegnare la storia della vita di James J. Braddock?
Oserei dire tutto.
Perché, nonostante internet, Instagram e Facebook, e tutti gli altri social network, ci mostrino il mondo dell’apparire, ognuno di noi sa bene, in cuor suo, che riuscire a emergere e creasi una strada, in questo mondo non sarà semplice.
Trovare un lavoro non è semplice, la pensione ormai è un miraggio, e, nonostante gli esperti abbiano detto che la crisi economica sia ormai finita, quella non sembra averli troppo ascoltati, e i suoi effetti continuano a perdurare.
Ma Cinderella Man ci insegna a non arrenderci, a non lasciarci scoraggiare.
Oggi, come nel 1929, anche se dovessimo fare errori ed essere vicini a rovinare tutto, non per questo dobbiamo pensare che la nostra vita sia finita.
Perché la vita finisce solo quando sventoliamo bandiera bianca, ma, se impariamo ad adattarci, e se non ci perdiamo d’animo continuando ad inseguire l’occasione, il destino ci riserverà una seconda chance che aspetta solo di essere concretizzata.
Il nostro mondo finisce quando lo diciamo noi: questo ci insegna Cinderella Man, quello che ci serve è solo una ragione per lottare, una ragione che sia abbastanza forte da infonderci il coraggio necessario per andare avanti.
Cinderella Man: Il coraggio
Tutto quello che ha avuto Braddock è stata una chance, e nemmeno una delle migliori.
Un singolo incontro con un campione, uno che tutti consideravano essere totalmente fuori dalla sua portata. Nessuno credeva che avrebbe potuto vincere e, probabilmente, non lo credeva neanche lui.
Una vittoria che pareva impossibile, in un match in cui erano solo i rischi ad essere altissimi, perché se c’è un’altra cosa che ci insegna questo film è che con il pugilato si può anche morire.
Allora perché tentare? Non avevano scelto lui per quell’incontro perché credevano che fosse abbastanza bravo, che avesse qualche possibilità. Avevano scelto lui perché sapevano che nessun pugile serio avrebbe mai accettato di gareggiare in un match così difficile con così poco preavviso. Ma Braddock non era un pugile serio. Era un pugile finito. Carne da macello.
Perché ha tentato? Piuttosto che aver tentato si è immolato, per i suoi figli, e per sua moglie. La sua ragione per lottare.
Perché aveva visto suo figlio rubare del cibo perché era affamato, e non c’è nulla di peggio per un padre che rendersi conto di non poter nemmeno sfamare la propria famiglia.
Non era nella sua migliore condizione quando ha affrontato il match: fuori allenamento, aveva anche lo stomaco vuoto, perché riempirlo sarebbe costato troppo. Eppure ci ha provato. Eppure ha vinto.
Non possiamo procrastinare le occasioni della vita, sprecandole, mentre aspettiamo di essere nelle condizioni ottimali per coglierle. Dobbiamo avere coraggio e ci dobbiamo buttare a capofitto, perché il momento migliore potrebbe anche non arrivare mai.
La scalata di Braddock termina con Max Baer.
A quel punto o sarà tutto o sarà niente.
L’incontro finale per guadagnarsi il titolo di campione del mondo dei pesi massimi.
Con Baer che aveva un destro capace di uccidere.
Di nuovo quella domanda: perché tentare?
Perché rischiare tanto?
Dov’è che un uomo trova quel coraggio?
Chiunque abbia visto Cinderella Man conosce la risposta.
Perché Braddock non vince con i muscoli, come potrebbe?
Non è il suo talento a farlo grande, perché il talento ce l’hanno in molti, ed è inevitabile che incontreremo molta gente che ne ha più di noi.
Puntando solo sulle nostre capacità potremo senz’altro diventare bravi, ma per essere davvero grandi ci vuole ben altro.
La grandezza si conquista con il cuore.
E Braddock vince con il cuore, ogni singolo match.
Perché nella vita, ed è questo che ci insegna James J. Braddock, è solo il cuore a poterti dare il coraggio di lottare.