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Toro Scatenato – La Vita come un Ring

Giulio Gentile

Settembre 20, 2018

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Il leone della Metro Goldwyn Mayer. Una musica sinfonica che gradualmente prende piede. I titoli di testa – un film di Martin Scorsese, Robert De Niro in, e già lì capisci che il film non deluderà.

E poi ecco.

Il tema entra nel vivo, lo spazio nero si dissolve, e al suo posato si aggiunge un bianco di rara ricchezza cromatica. E’ un ring, e al suo interno c’è un pugile. Un pugile solo, che pare in un universo fuori dal tempo – anche dallo spazio se non fosse per quelle tre strisce nere che lo spazio lo creano insindacabilmente.

E’ un ring, non c’è dubbio.

Saltella, come se si stesse preparando per un match, o comunque per qualcosa di arduo che lo attende all’orizzonte, oltre la nebbia che circonda il ring. Saltella, dà pugni all’aria, fa qualche passo e poi ricomincia, chiuso in un accappatoio da cui pende una cintura che dà l’illusione di essere una coda. I baluginanti flash dei fotografi assistono allo spettacolo, tutti sono lì in attesa, e nel frattempo lui danza, danza, e danza ancora. Cammina, sferra pugni nell’aria con quella convulsa coda che si agita, e senza guardarsi attorno ritorna a tastare il ring in ogni sua lunghezza. Chiuso in quell’accappatoio che sembra una pelliccia. Come una bestia in gabbia.

Come un animale abbandonato.

Il film in fondo è tutto qui, racchiuso in questi titoli di testa, tra i migliori della storia del cinema, con l’Intermezzo della Cavalleria Rusticana – una storia popolare di violenza, di gelosia, di ossessione, di paranoia, di ogni forma di miseria – a fare da tema portante.

E’ così che ci viene mostrato il mondo di Jack La Motta, non solo necessariamente nella sua distorta e paranoide visione: una box specchio della violenza insita nella natura umana, attraverso la quale può trovare libero sfogo, tanto che tra le scene di violenza del ring e quelle del quotidiano appare esserci una sottesa ma sempre palpabile analogia sostanziale. Un mondo a cui pare non potersi sottrarre – lui, nato nei ghetti italiani del Bronx e abituato fin dalla tenera età a trattare la vita come una lotta per la sopravvivenza, dove i nemici possono essere sempre dietro l’angolo e vanno scovati e poi abbattuti il più velocemente possibile, poiché chi picchia per primo picchia due volte.

Scossero molto alla sua uscita la brutalità e la violenza – in ogni loro sfaccettature – del personaggio di La Motta, ma forse non si capì appieno quanto queste fossero essenziali a delinearlo. Nato nella violenza, nel “fango”, quel mondo che rappresentava la sua vera opportunità di riscatto sociale lo spinge a dover restare così, a rimanere una bestia aggressiva e senza freni, un Toro Scatenato incapace di uscire mentalmente dai contorni dell’arena.

E’ illuminante a tal proposito cosa disse lo stesso Scorsese al “Positif” nel dicembre 1978, quando il film era ancora in produzione.

“Il tema del film è la sopravvivenza, di nuovo. La sopravvivenza su un ring. Combattimenti regolari non ne esistono. Ho visto abbastanza combattimenti per esserne convinto. Voglio mostrare come un pugile impara a dominare l’odio e la violenza, come tenta di diventare un essere umano al di fuori del ring, come tutto congiuri per impedirgli di fermarsi. Ciò non è diverso dagli altri modi di vita che conosco.”

Un percorso che lo spingerà dapprima sul palco degli dei, ma beffardamente, quasi volessero ingannarlo, per poi togliergli subito tutto – anzi, facendo sì che quella sua stessa disumana ferocia che lo aveva portato su in cima lo stesse al contempo rendendo debole e solo, facendo sempre più terra bruciata di ogni cosa avesse mai faticosamente guadagnato – memorabile lo sfogo in prigione, forse il punto in cui il personaggio guarda per la prima volta in faccia la verità, in cui accetta per la prima volta la sua rabbia disperata, timoroso che venisse scambiata per cattiveria. In cui accetta, per la prima volta, l’insuperabile peso del proprio limite umano e l’ineliminabile fardello del proprio essere.

Non è un personaggio “cattivo” Jack La Motta, benchè definizioni di questo tipo sappiano di giudizi tagliati con l’accetta; come più volte ci viene suggerito nel corso del film, è il risultato di una serie di circostanze in parte decise da lui, ma per la stragrande maggioranza solo subite, verso cui- per ragioni sociali e culturali – era totalmente impotente.

Sempre al Postif, Scorsese disse: “Era diventato ovvio. Quello che avevo appena passato – “, riferendosi ai suoi pesanti problemi di tossicodipendenza, di crisi lavorativa, e di generale depressione: ” – Jake La Motta l’aveva conosciuto prima di me. L’avevamo vissuto ognuno a modo suo. L’eredità cattolica, il senso di colpa, la speranza di una redenzione. Forse è pretenzioso parlare di redenzione. In fondo, si tratta di imparare ad accettarsi. E’ quello che ho capito nell’istante in cui, senza ben sapere cosa stessi dicendo, ho risposto di sì.”

E’ questo il punto in cui Scorsese mescolò la sua biografia a quella di La Motta – anche considerando quanto fosse fermamente convinto che Toro Scatenato sarebbe stato il suo ultimo lavoro. Riprendere la propria vita e imparare ad accettarsi – non a redimersi, sarebbe pretenzioso, giacchè comunque qualcosa rimarrà sempre a bussare alla porta del proprio Io.

La Motta ha ormai un’altra vita – è rimasto un uomo dallo spiccato e sardonico senso dell’ironia, ma privo di quell’aggressività che lo contraddistingueva in gioventù; vive una vita modesta facendo da cabarettista nei locali che forse un tempo erano suoi. E quando non sembra essere rimasto più nulla di quanto fu, ecco che, davanti a quello specchio, emerge nuovamente il Toro Scatenato. L’uomo costretto a vedere la vita come un ring, costretto a immaginare di essere invincibile e “il più forte” per potervi restare ancorato.

Qualcosa di cui ora è tuttavia consapevole: ha preso coscienza della propria natura per cercare di controllarla, per non lasciarla scatenata, a piede libero. Poichè un tempo era cieco, e adesso può vedere.

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