Frida, della regista americana Julie Taymor del 2002, è uno dei soli due film girati in onore dell’artista messicana, la più venerata tra le artiste femminili (l’altro è in realtà più datato: Frida, Naturaleza Viva del 1983). Questa pellicola dunque è al momento considerata l’unico biopic di riferimento al personaggio storico di Frida Kahlo, e uno di quei biografici che o si amano o si odiano: infatti, analizzando brevemente sul web il suo indice di gradimento si incontrano pareri contrastanti. Si parla di semplice adattamento cinematografico della biografia ufficiale scritta dall’Herrera, si parla della resa dei pensieri dell’artista attraverso dei brevi – e ridicoli – sketch teatrali, si parla di capolavoro o di aver messo da parte l’arte in favore della vita privata dell’artista. Io direi che non si merita di certo una condanna.
Frida si presenta come un fluido concatenarsi di eventi, in ordine cronologico, dall’adolescenza sino agli ultimi anni. È un racconto che lo spettatore segue esternamente: non si ha contatto con il punto di vista interno dell’artista, poiché non vi è una voce fuori campo del protagonista.
In effetti non si può che assistere, timidamente, quasi come un voyeur, a quella che fu la vita-dramma dell’artista, quella vita a cui Frida vi rimase aggrappata con tutte le sue forze, da quel 17 settembre 1925: il giorno dell’incidente in autobus, un destino segnato. La Pelona (la Morte) aveva da sempre danzato attorno a lei, a suo dire.
In questo racconto cinematografico si alternano momenti di irreverente ironia a momenti di tristezza, ma una tristezza silenziosa, comunicata solo attraverso l’immagine, o ancora più direttamente attraverso i quadri della Kahlo. La musica, che contribuisce senz’altro a scandire tale altalena, sta di fondo a tutto: infatti Frida della Taymor vanta la premiazione per la miglior colonna sonora agli Oscars e ai Golden Globes del 2003.
Ma veniamo all’interpretazione del personaggio.
La Frida di Salma Hayek è vitale, passionale, assuefatta al dolore, ma ribelle alla vita. La capacità di adattamento di questa mitica donna è stata incredibile, nelle più svariate situazioni: per un momento non pensiamo al drammatico incidente, ma al periodo post incidente, caratterizzato da una determinatezza sopra le righe.
Frida – avendo assaggiato amaramente che gusto avesse la Pelona – una volta riscesa in campo in quel gioco per soli coraggiosi che si chiama vita, è pronta a sfoderare tutte le sue carte…o pennelli. Con qualche tela dipinta durante la convalescenza si reca da Diego Rivera (Alfred Molina), considerato in quel momento il più grande pittore muralista messicano – e anche il più famoso donnaiolo e infedele marito.
Tutti lo conoscono, Frida già da adolescente lo prendeva in giro chiamandolo Panzon; lei sa che lui sarebbe potuto essere la sua unica occasione, perché donna in mondo di artisti uomini. Ma non concedendosi a lui, come capitava a ogni modella per i suoi dipinti: una volta conosciuti, ed entrata a far parte del circolo degli artisti – tra i quali c’è la fotografa e amica Tina Modotti (Ashley Judd), con cui a una festa Frida balla sensualmente un tango, attirando per la prima volta l’attenzione di tutti su di sé – i patti son chiari: una stretta di mano sancisce solo un’amicizia fedele tra i due.
Ma chi lo è (fedele) veramente? Il feeling incontrollato, l’ammirazione di Diego per l’arte di Frida, la condivisione dei veri valori della rivoluzione comunista messicana, oltre che l’attrazione fisica per quel cosiddetto bel mostro – o rospo – faranno di Diego e Frida la coppia tra le più belle coppie nel mondo dell’arte.
Una rischiosa passione
Il film è, in effetti, principalmente improntato nel raccontare la storia d’amore tra i due, probabilmente trascurando l’arte di Frida, la vera ragione per la quale è divenuta famosa. La Taymor, secondo me, così ha forse reso il biopic sull’artista gradevole il più possibile per tutti: conferendo note romantiche al film biografico si sono raggiunti anche i meno intenditori di storia dell’arte.
Sin dal primo bacio scambiatosi, Frida è consapevole di cosa sarebbe andata in contro amando Diego.
Diventa amica anche di Lupe, l’ultima ex moglie di Diego (Valeria Golino) con cui Frida stringe amicizia: è messa ben in guardia sulla sofferenza che un uomo come lui, fisiologicamente infedele, le avrebbe recato come è successo alle altre donne prima di lei. Ma Frida è determinata, non le importa cosa dirà la gente, non le importa di cosa accadrà in futuro, lei vive di passione per Diego nel presente, insieme sono brillanti, e insieme porteranno avanti la révolution. È questo che conta per lei – mentre per suo padre conta anche il fatto che con un matrimonio si sarebbe rimediato a molti debiti.
Frida si sposa, con un uomo col doppio dei suoi anni, con l’uomo più discusso del Messico. Lei è coraggiosa, non si ingelosirà delle altre amanti, Frida rischia.
La fortuna di Frida, nella sua condanna
Dopo il matrimonio, avvenuto nel 1929, il decennio degli anni Trenta sorriderà all’artista. I suoi ritratti ricchi di pathos iniziano a essere sulla bocca di tutti; imminente sarà la partenza della coppia per New York (chiamata da Frida Gringolandia): un’importante commissione giunge per Diego persino per il Rockefeller Center.
Proprio quando tutto sembra brillare, la ruota della fortuna inizia a girar contro. Una serie di eventi colpiscono il cuore di Frida: il processo mediatico contro il volto di Lenin rappresentato da Diego nel suo murales per il Rockefeller, il tremendo aborto spontaneo (qui sotto il dipinto Ospedale Henry Ford, 1932) , l’inizio dei tradimenti seriali di Diego, e, non ultimo tra questi, quello con l’amata sorella di Frida, Cristina, un terribile affronto che ha spezzato ancor di più il già martoriato cuore dell’artista e che porterà alla richiesta del divorzio, nel 1939.
«Ho subito due gravi incidenti nella mia vita: il primo è stato quando un tram mi ha travolto, il secondo è stato Diego».
Quello che sembrava essere un sogno inizia a trasformarsi in amara realtà: pareva essere un’illusione, una carta velata avvolgente i problemi di coppia, quella del “Diego è solo mio”, del “amo solo te” o del “è stato solo sesso”. Frida, da donna più matura, non può più sopportarlo. E così anche lei risponde a tono, ostentando la sua libertà sessuale – sono noti i numerosi rapporti extra-coniugali con entrambi i sessi –, la sua indipendenza e la totale volontà di vivere a suo piacimento, manifestando sempre più nei suoi quadri durezza e fragilità allo stesso tempo.
«Ogni giorno, ogni notte… ho amato Diego. L’ho odiato. È stato la causa e l’effetto. Il sole e la luna. Il giorno e la notte».
«Diego, la mia vita e la mia morte. La mia malattia, la mia guarigione. La mia coscienza. Il mio delirio. La linfa più dolce, il deserto più desolato. La mia arsura e la mia pioggia. La fede in me stessa e il disprezzo per come mi sono lasciata martoriare senza porre un limite».
(Pino Cacucci, ¡Viva la vida!)
Man mano, nella sua libertà, Frida diventa simbolo dell’emancipazione femminile, della lotta contro la vita e contro le sofferenze che essa arreca.
Il suo look pre-colombiano fatto da abiti riccamente decorati, colori, fiori e gioelli, le sopracciglia ad “ali di gabbiano nero” e soprattutto il suo stile pittorico, agli opposti di quello di Diego, diventano tratti distintivi inconfondibili tutt’oggi.
Frida incarna il riscatto di una donna vittima e amatrice della vita stessa, è colei che ha saputo spaventare la Pelona con il suo grido di dolore quel giorno in autobus, tanto da cacciarla via. Era l’urlo di positività espresso nell’ultimo suo dipinto-testamento ¡Viva la vida!, raffigurante delle coloratissime e succose angurie.
Il riscatto grazie alla sua arte, che l’ha portata a essere conosciuta prima in Europa (tra il circolo dei Surrealisti) e poi nella sua patria; è proprio con la prima mostra a Città del Messico che il film si presta a concludersi: è Diego a parlare dei suoi dipinti non come marito ma come artista ed estimatore.
«La sua opera è aspra e tenera, dura come l’acciaio, delicata come ali di farfalla, gentile come un sorriso e crudele come l’amarezza della vita. E io non credo ci siano state altre donne così prima di lei».
(Diego Riviera in ¡Viva la Vida!)
Ed è dopo queste parole che Frida entra in scena, ironica e scherzosa, sdraiata nel suo letto, dal quale il medico le aveva detto di non separarsi assolutamente per via di una malattia respiratoria: non poteva mancare per nessuna ragione, anche se malata. Era l’ultimo schiaffo alla Pelona che le stava danzando attorno, prima di lasciare definitivamente la terra a quarantasette anni nel ’54.