Arwen – Elogio alla Mortalità | Il Signore degli Anelli
«Si può minacciare di una cosa diversa dalla morte? Ciò che sarebbe interessante e originale sarebbe minacciare di immortalità».
Jorge Louis Borges
L’uomo, sin dalla sua primordiale origine, sin dal primo sguardo nell’alto dei cieli stellati, è sempre stato una perpetua tensione verso l’assoluto, un incessante richiamo in direzione dell’infinito, un ossessivo tentativo di trascendere i propri limiti.
L’essenza umana è come fosse tinta da un’angosciante ricerca dell’immortalità, una tormentosa intenzione di essere divina. La letteratura è ricolma di racconti epici sulla volontà della vita illimitata, di viaggi con eroi che cercano di assaggiare una goccia di eternità. Questa tendenza all’immortalità è manifesta in ogni agire, in ogni dire e in ogni sentire. Abitualmente immaginiamo ogni nostro progetto come fosse infinito, ogni nostra relazione come fosse senza una fine. Ma questa è un’illusione, talvolta necessaria, ma pur sempre un’illusione. Noi siamo mortali, essenzialmente mortali. La mortalità è ciò che ci appartiene in senso più eminente, ciò che dona valore alle nostre azioni, ciò che ci rende autenticamente umani.
L’essere umano, forse inconsapevole di quest’istanza a lui più propria, è quindi una volontà di infinito profondamente incarnata in un’inevitabile finitezza, è un Dio mancato, direbbe qualcuno.
L’illusione di questa pretesa umana, troppo umana, viene affrontata e rivelata in quanto tale dalle narrazioni di Jorge Louis Borges, scrittore e poeta di origine argentina, e dalle scelte esistenziali di Arwen Undómiel, principessa degli elfi della Terra di Mezzo, proveniente dal mondo tolkieniano.
Borges, nel suo racconto L’immortale, porta alla luce la storia di un tribuno romano che decide di avventurarsi alla ricerca della mitica città degli Immortali. Questo personaggio rappresenta la personificazione della natura umana che tende a oltrepassare sé stessa, una natura che si perde nella volontà di infinito, dimenticandosi dell’eternità dell’attimo presente. Dopo un lungo e tortuoso viaggio nel deserto, finalmente il tribuno trova l’oggetto del suo desiderio.
La città da lui immaginata, dai tratti affascinanti seppur ingannevoli, si rivelerà, però, di tutt’altra realtà.
Gli Immortali, ciò che infatuò la mente del protagonista, appariranno del tutto indifferenti alla vita, al proprio destino e a se stessi. Questi uomini, che perdono la loro umanità appunto perché immortali, sono alienati dalla propria condizione poiché, potendo ritornare eternamente sui propri passi, qualsiasi loro azione perde di significato.
Nella vita di questi soggetti nulla è decisivo, poiché qualunque orizzonte di possibilità resta aperto e infinito, qualunque decisione è ininfluente. Con ciò il peso di ogni scelta cade, se nella decisione io opto tra varie possibilità e agendo ne realizzo una nullificando le altre, in questo caso nessun futuro diviene tangibile realtà, perché ogni possibilità rimane tale e non si disperde. In un tempo infinito accadono le medesime cose a ogni uomo, rendendo vero l’angosciante fatto che nessuno è qualcuno in particolare, e che ognuno è uguale a un altro.
Il protagonista si rende conto che in questa città, dove regna un’assordante quiete alienante, gli uomini sono imprigionati nelle catene della propria immortalità. Imprigionati perché impossibilitati di vivere autenticamente, di sbagliare, di scegliere, di esistere.
Borges, nel viaggio alla ricerca dell’immortalità, rivela come ciò che ci rende umani è proprio la nostra mortalità.
Ottenuto il desiderio tanto agognato di esistere all’infinito, l’uomo non sarebbe più in grado di vivere la vita che tanto temeva di perdere. Ed ecco che, per il tribuno romano, inizia la ricerca opposta: lui, divenuto immortale, cercherà di conquistare ciò che gli fu più peculiare, ciò che rende la realtà così preziosa, la propria mortalità.
«Nessun uomo è nato per essere immortale, né, se lo divenisse, sarebbe per questo felice, anche se molti pensano il contrario».
(Platone, La Repubblica)
Questa predisposizione all’assunzione della mortalità come dimensione umana più propria, è stato oggetto di riflessione di uno dei più grandi filosofi novecenteschi, Martin Heidegger.
L’autore tedesco considera la morte come la possibilità a noi più propria, come ciò che conferisce senso a tutte le altre nostre possibilità. Il pensatore teorizza un concetto che ci caratterizza in senso eminente, l’uomo è essere-per-la-morte. Ciò significa che l’individuo, nel suo agire ed essere nel mondo, è in un perpetuo rapportarsi con la propria morte. Anche quando è in perfetta salute, la morte si manifesta come un estremo che non è lontano, ma qualcosa con cui siamo in relazione costitutivamente. Heidegger sosterrà che moriamo da quando siamo nati, essendo il fatto a noi più proprio. Moriamo in quanto esistiamo.
La morte non è da intendere come un evento tra gli eventi, e nemmeno come una riflessione teoretica che possa essere concepita in senso negativo, come la fine di tutte le nostre gioie, oppure in senso positivo, come la fine delle sofferenze.
In sé stessa non ha alcuna valenza valoriale, ma paradossalmente conferisce valore al nostro essere.
Essa è da concepire come la possibilità prima e ultima, incondizionata, estrema e insuperabile. L’autenticità si rivelerà proprio nel vivere in rapporto a questa possibilità in quanto possibilità, ora e sempre, per essere al cospetto di noi stessi.
Di fronte alla consapevolezza della propria finitezza comprendiamo che dobbiamo scegliere, perché le nostre possibilità non sono infinite. L’unica cosa che chiama alla decisione e a darsi forma è la consapevolezza della propria morte.
La fine, la coscienza della nostra finitezza, incombe su di noi. L’obiettivo, secondo Heidegger, sarà assumere, incorporare e volere la propria mortalità, poiché è esattamente questo che ci permette di vivere. L’esistenza autentica è pervasa dall’angoscia dovuta alla consapevolezza della propria finitudine. In questo modo, trasformo gli infiniti possibili in una strada che solo io posso percorre, un destino solo mio. Concependomi come finito, io sono in grado di scegliere, sbagliare, amare, vivere, di rendere la vita il mio destino. Assumere la propria mortalità non significa rinunciare alla tensione verso l’infinito, ma semplicemente viverlo consapevoli del nostro essere.
Questa tematica viene implicitamente affrontata in alcuni passaggi de Il Signore degli Anelli, dalle azioni di Arwen, un personaggio ideato dal maestro John R. R. Tolkien e trasposto cinematograficamente da Peter Jackson.
Lei appartiene al popolo elfico, un popolo immortale, caratterizzato da un’aspettativa di vita eterna, anche se essi possono morire se uccisi, se oppressi da un profondo dolore morale, oppure se rinunciassero volontariamente alla propria immortalità. Gli elfi, però, considerano celatamente la mortalità umana come un dono, come ciò che possa giustificare l’esistenza.
Arwen, la figlia del Re degli elfi, nel momento in cui l’ombra del male sembrava oscurare qualsiasi spiraglio di luce, poiché l’anello del potere non era ancora stato distrutto, viene persuasa dal padre ad abbandonare l’amato Aragorn e la Terra di Mezzo.
Durante il viaggio, insieme al proprio popolo verso le Terre Immortali, vede dinnanzi a sé il proprio futuro, quello che avrebbe voluto vivere, quello che il destino in questo mondo le avrebbe riservato. In questa premonizione, l’Elfa viene rapita dalla disarmante emotività che esplode nella visione di sé stessa e Aragorn giocare con un bambino dagli occhi elfici e con al collo la Stella del Vespro, la pendente che aveva regalato al suo innamorato.
Il padre di Arwen cercherà di convincere la propria figlia a recarsi insieme a lui al di là degli oceani, nelle prossime terre elfiche, dicendole: «Arwen… non c’è nulla per te qui, solo morte».
Ecco, ha perfettamente ragione, per Arwen qui c’è morte, ma non c’è solo morte, perché essa è accompagnata dalla vita, dalla vita più autentica.
Quello dell’Elfa è un elogio non della morte in sé come fine delle sofferenze, ma della mortalità come fonte valoriale del nostro essere. Quella di Arwen è la scelta della mortalità, e non della morte. Scegliendo la mortalità, liberandosi dalle catene dell’immortalità, Arwen sceglie di esistere.
Il paradosso emerge quando ci rendiamo consapevoli del fatto che il nostro personaggio, scegliendo di essere mortale, raggiunge la più reale immortalità. La sua decisione nasce e si compie esclusivamente per Amore, per puro Amore, e tutto ciò che si fa per Amore è sempre al di là del bene e del male. Ma è proprio qui che la vera immortalità si disvela come tale, nell’Amore, nel sentirsi giustificati di esistere seppur per un tempo finito.
Amare ci rende immortali, o come disse il poeta Pessoa: «L’amore è uno scampolo mortale di immortalità».
Arwen, così, sceglie. Sceglie di incarnare un destino diverso da quello che la sua stirpe, la sua natura, le aveva predisposto; di rinunciare alla propria immortalità individuale per amore, per condividere il proprio futuro con quello, seppur finito, del suo amato. Sceglie, consapevolmente, di affrontare la morte, quella di Aragorn, del proprio figlio e la propria; di accogliere il dolore umano, le sofferenze che questa decisione le causerà, ma anche tutta la reale gioia che ciò le permetterà di vivere.