Anche Oh Dae-Su, il Minotauro di Park-Chan Wook, ride. Accade nell’ultimo frame di Old-boy. Un ghigno aguzzato dal freddo custodisce la tragedia e si lacera dentro. Ne viene fuori un risolino, intriso di troppa consapevolezza. La stessa consapevolezza che manca del tutto alla risata sopita di Carolina, l’Andromaca di Valerio Mastrandrea. Il suo Ettore è morto sul posto di lavoro, in un cantiere. Ma Carolina non riesce a piangere come fa Andromaca che “quasi spirava la vita”. Carolina invece sorride infantilmente, mentre accoglie amici e parenti, in un appartamento che non può raccontare la fine di una vita perché animato dalle cianfrusaglie del quotidiano, di cui è pieno.
Accade nel film esordio di Valerio Mastrandrea, Ride, proiettato il 26 gennaio al cinema Vittoria di Monopoli, durante il Sudestival. Erano presenti in sala il regista Valerio Mastrandrea e l’attrice Chiara Martegiani, interprete di Carolina, nonché compagna di Mastrandrea.
Questo film esprime quanto siamo liberi di vivere la gioia,il dolore, la paura, le emozioni basiche
esordisce Mastrandrea.
Di certo libera non è Carolina, che si vede invadere casa da enti istituzionali per l’organizzazione dei funerali pubblici, neanche ventiquattrore dopo la tragica perdita del marito Mauro; libero non è il figlioletto di Carolina: il suo modo di vivere il lutto consiste nel non vivere il lutto. In lunghe sessioni di allenamento mnemonico, si prepara per un’intervista improbabile, comica, cui dovrebbero sottoporlo i giornalisti nel giorno del funerale del padre. E libero non è neanche il padre anziano di Mauro, interpretato da Renato Carpentieri: operaio in pensione, esasperato dal senso di colpa per le sconfitte sulla tutela del lavoro, che forse hanno causato indirettamente la morte del figlio.
Il pianto, poi le condoglianze e la commiserazione, il funerale e infine il ricordo di lui che rimane. E’ l’ordine imperativo delle fasi. Ordine rispetto a cui i personaggi di Ride non possono e non riescono ad aderire. Perché l’interiorizzazione è personale, “ognuno con i suoi mezzi, magari arrivando a pezzi” direbbe Dalla. E così si evita l’appuntamento con la società liquida che chiede tutto e subito. Ma l’inquadratura si allarga nel momento in cui i personaggi non si limitano alla vetrinizzazione del dolore ma ostentano un enorme senso di inadeguatezza. Sembrano non sentirsi all’altezza della perdita e del dolore che essa comporta. Si sentono inadeguati non tanto al senso di perdita e al dolore in sé, ma piuttosto a quello che socialmente comportano la perdita, il dolore e i codici convenzionali.
E questo non sentirsi all’altezza è endemico del film, ma non è generazionale, perché appartiene a tutti e tre: al figlio, alla mamma e al nonno. Il Sorrentino di The Youth direbbe che il segreto di questa vita è che nessuno si sente all’altezza. Una riflessione che forse intimamente Carolina matura, quando abbassa le difese inconsce e raggiunge finalmente la valle di lacrime. Una liberazione ma anche uno stadio successivo dell’emotività, per come viene raccontata dalla macchina da presa di Mastrandrea: una scena tanto surreale quanto simbolica, in cui la telecamera piove letteralmente e a dirotto sulla testa di Carolina, mentre è in casa, sul divano. E di certo non è la nuvola dell’impiegato.
La nostra redazione ha avuto il piacere e l’onore di poter fare una domanda a Valerio Mastandrea, relativa al suo stile di regia.
Che regia ha adottato per il film? Come ha diretto gli attori e come si è relazionato al montaggio?
Valerio Mastandrea: Non mi sono fatto troppe domande sulla dilatazione dei tempi, del montaggio. Mi interessava arrivare al cuore del problema. È una regia sobria e rigida. Amo i film in cui il regista è spettatore, in cui guarda e percepisce. La regia non dev’essere invadente.
Subito però ci risponde anche Chiara Martegiani e i due compagni iniziano a prendersi in giro.
Chiara Martegiani: Valerio Mastandrea ti faceva pensare di essere libero, ma ti controllava su tutto.
Valerio Mastandrea: Un po’ come la Russia di Putin.
Chiara Martegiani: Sapeva esattamente cosa voleva dai suoi personaggi, ti lasciava fare, ma sapeva come seguirti.
Valerio Mastandrea: Sono stato un rompicoglioni con gli attori. Mi è sempre interessata l’autenticità . A me chiara interessava forse autentica. Carpentieri a un certo punto mi ha detto basta, non posso essere come te. Al prossimo film prenderò attori professionisti!
Chiara Martegiani: Per me fare l’attrice è un bisogno, per stare meno con me stessa. Mi diverto a fare personaggi, non mi vergogno
Valerio Mastandrea: Non è difficilissimo diventare attori, ma quello che c’è dietro gli occhi di un attore non ce l’hanno tutti… io non riesco a dare ai personaggi crudeltà, distacco.. io cerco sempre l’umanità, empatia. Chiara è bravissima, interpreta tutti alla perfezione. Io contamino i personaggi, lei no.
Attrice e regista scherzano spesso, ridono e si lasciano andare a momenti di affetto. Durante il dibattito, però Mastrandrea ricorda più volte Claudio Caligari, suo maestro di vita più che di cinema. È proprio qui che il suo tono diventa più rispettoso e nostalgico.
Di Claudio Caligari è difficile portare davvero qualcosa, sento di non averlo capito fino in fondo. Ma mi ha fatto capire che l’amore per qualcosa ti allunga la vita, ho visto Claudio morente davanti a un monitor, combattere e campare sei mesi in più per finire il film. Ha fatto solo tre film e ho tempo per capirlo”.
I piani larghi sulla spiaggia di Ostia infatti richiamano inconfondibilmente quelli del maestro Caligari , del quale sono stati un segno distintivo. Anche il fatto che Carolina e il padre rimangano nelle proprie isole interiori, senza condividere il lutto, richiama l’universo narrativo di Caligari e la distanza emotiva tra i suoi personaggi.
“Da qualche anno penso che il cinismo sia una forma di difesa anche subdola. La sfida del film era di cercare di stare nella testa di Carolina, fatta di purezza, curiosità, incanto e ingenuità”
Questo è il motivo per cui la regia di Mastrandrea è una regia di attesa e osservazione, senza intromettere la macchina da presa tra i personaggi. Piani molto lunghi, poco montaggio: la macchina batte ciglio solo quando è necessario. Per il resto tanta, tantissima recitazione.
“La cosa difficile di questo personaggio sono stati i suoi silenzi, i suoi piani d’ascolto, attraverso i suoi occhi dovevo far passare tutto ciò che le passava in testa”
dice Chiara Martegiani. E all’unanimità di tutti in sala ci è riuscita.
Le altre domande dei giornalisti in sala sono state stimolanti e mirate verso vari argomenti:
Il film è incentrato su di lei: cosa ha pensato quando ricevette la parte?
Chiara Martegiani: La prima volta che lessi la sceneggiatura, Valerio non aveva in mente me. A me piaceva tantissimo il film. Nel mentre non lavoravo. Lui mi ha chiesto se avevo voglia di aiutarlo a fare i provini. E io gli ho risposto di si. Dopo un mese di provini gli ho chiesto perché continuasse a fare delle audizioni anche a me? Dopo un momento di silenzio, lui mi ha detto: “Ti devo dare una notizia bella, ma anche tremenda: Carolina sei tu!” Io piangevo di gioia. La responsabilità era tanta, ma la gioia era immensa. Avevo il privilegio di interpretare un personaggio così autentico e di lavorare con Valerio.
Valerio Mastandrea: Quando le ho detto: “vieni a Napoli che ti devo parlare e ti devo dire una cosa bellissima ma anche tremenda”, pensava l’avessi tradita. Io avevo i conati perché per la prima volta, potevo condividere un lavoro nuovo che però nasceva da 25 anni di relazione. Mi fa stare ancora nervoso.
Sei cosceneggiatore. Il film l’hai pensato come storia, l’hai concepito, ne hai pensato le battute. I due bimbi sono stupendi. Esprimono la vetrinizzazione del dolore: hai sviluppato l’idea dei bambini imprigionati nella vetrinizzazione di sé stessi?
Valerio Mastandrea: Tutti dicono che ogni generazione ha il suo modo di affrontare il dolore. Ma questa è la storia di una famiglia che prova a non crollare: prima c’è una morte più ingiusta della morte in sé – la morte a lavoro – e poi c’è un’intera famiglia, che quasi non si incrocia, con ognuno che sta per conto proprio e prova a proteggersi. Il bambino si protegge inventandosi una storia, come difesa. E poi usa gli strumenti che i bambini oggi riconoscono. Questa cosa della vetrinizzazione riguarda più la mia generazione, che ha vissuto il cambio della comunicazione. I bimbi sono stati allevati, addestrati, allenati da un attore di Polignano. Io sono nato lavorando, in cattività.
Il rapporto con il dolore. Che significa fare i conti col dolore? Spesso sembra che il dolore o vada rappresentato teatralmente o debba essere eclissato…spesso il dolore si preferisce evitarlo, ignorarlo.
Chiara Martegiani: Oggi si tende molto a proteggersi dal dolore. La sfida è affrontarlo con libertà, come ognuno vuole, crede, senza esserne condizionati. È il messaggio del film. Io poi personalmente mi sono rapportata in maniera diversissima dal film. Ma perché non sono cresciuta ‘protetta’.
Valerio Mastandrea: Questo film ci chiede: quanto siamo liberi di vivere quello che vogliamo? Gioia, dolore, paura, le emozioni basiche, le sensazioni primarie. Quanto un dolore che di diritto è mio, in un attimo diventa di tutti, privandomi di ciò che mi appartiene? È un discorso che si può fare anche sulla felicità. È lo stesso. Oggi la felicità viene sbattuta in faccia a tutti, col telefono. E se uno non è felice si sente anche in colpa di non rispondere ai codici della comunicazione di oggi, dei social. Basterebbe parlarne davanti a una birra. C’è invece un senso di colpa nel condividere la felicità sui social. A me è capitato di provare grande solitudine di fronte ai social network. Mi sento molto più solo lì che dentro casa. E nel film c’è anche questo.
Siamo abituati a vivere tra bene e male, in una distinzione netta. Questo film si regge su queste due categorie?
Valerio Mastandrea: Questo film difende ciò che sei, ciò che si ha il diritto di essere. C’è una sanzione sociale – il marito è morto in fabbrica, il funerale sarà pubblico, la gente va e piange per sé stessa, il figlio si è accorto che non piangono sinceramente – ed è tutto condizionato dalla morte in fabbrica. C’è un travolgimento di attenzioni.
Chiara Martegiani: Bene e male nel mio personaggio funzionano in maniera originale: non potevo giudicare il mio personaggio, l’ho accettato per quello che è. Io ho cercato di vivere Carolina per come stava in quel momento, l’ho capita senza pensare a bene e male. Ho vissuto anch’io la tiritera di gente che viene a casa. Con Valerio abbiamo lavorato per rappresentare il male del Personaggio attraverso la sua ironia. Dice cose tremende con leggerezza.
Da che ursenza nasce il film?
Valerio Mastandrea: Più che un’urgenza, era una storia che mi tornava in mente da tanti anni. Lessi interviste a donne (madri, moglie, sorelle, figlie) di morti sul lavoro, tre giorni dopo il fatto. Alla terza mi sono chiesto: ma perché non lasciano in pace questa gente, che non riuscirà mai ad elaborare questa perdita? Poi piano piano si sono accavallati tanti temi, il tema padre-figlio, figlio-mamma.. ecco nel primo film è come se invitassi a cena persone offrendogli tutto ciò che si può offrire.
Qual è il film della sua carriera d’attore in cui più ti riconosci?
Valerio Mastandrea: Ogni personaggio che ho affrontato l’ho sempre riempito di cose mio, quando potevo. Ma non riproducendo me stesso. Un personaggio che ho sentito molto vicino è Stefano Nardini, del film “Non pensarci” del 2006 di Zanasi. È un film bellissimo. Ancora parlo delle Nardinate con Zanasi.
La lettera a Scorsese è storia vera?
Valerio Mastandrea: È vera la storia della lettera a Martin Scorsese. Claudio caligari è stato un regista che ha fatto solo tre film nella sua vita. Per l’ultimo ha invitato Scorsese per farsi dare un milione di euro per fare film. La lettera è vera, sta sul Messaggero.
Perché quella colonna sonora? Perché la scelta della musica di Graziani?
Valerio Mastandrea: La mia scelta è la scelta dei personaggi. La famiglia di Carolina e Mauro, e quella casa (girare è stato comodissimo), è sintomo di come loro sopravvivono: il Lavoro di lui e di lei. La musica è la musica della loro storia, della loro famiglia. Forse in questo film c’è troppa musica, ma ogni canzone che parte (quasi sempre in controtempo e finisce fuori tempo) rappresenta lei. Gli unici brani oggettivi che non si riferiscono a un personaggio sono gli ultimi due: quello in fabbrica e “Sei così bella” di Ivan Graziani, che conoscono in pochi ma mi piaceva chiudere così…
Hai già fatto un cortometraggio nel 2005 sempre sull’ambiente di lavoro. Come mai sei così attaccato a questo tema?
Valerio Mastandrea: Sulle morti sul lavoro c’è un problema di assuefazione, anche mediatica. L’indignazione – che è sentimento necessario e utile – non basta più. Io ci faccio sempre caso, voglio continuare a farlo. Mi interessa. La media delle morti sul lavoro si è abbassata ma rimane alta. Questo film vuole parlare del mondo del lavoro. Quando il padre dice che il mondo del lavoro è diverso, sono cambiati i costi, i tempi, e si hanno sempre più morti. Oggi lavorare non è più ciò che era negli anni 60 (migliorare, costruire..), oggi lavorare sembra spesso una condanna a morte, nel 70% dei casi. In Non essere cattivo – la storia di due amici di cui uno muore in una rapina, mentre l’altro lavora al cantiere e si salva – Caligari mi diceva: “questo film rappresenta chi rimane, a lavorare. E io alla gente chiedo: è meglio morire a 25 anni in una rapina ribellandosi alle regole della vita, o a 75 dopo una vita straziante di lavoro?”
La riflessione di Mastandrea sul cinema, sul dolore, sulla famiglia e sulla morte riempie la sala di dubbi, incertezze e momenti di estasi. Il suo è un cinema che come quello dei grandi registi va dritto al cuore delle cose ed emoziona con la sua esasperata umanità di fronte alle disgrazie della vita.
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