Usiamo spesso la parola capolavoro per descrivere i nostri film preferiti, spesso anche in modo improprio. Cosa significa che è un film è un “capolavoro”? Che è al di là di ogni critica, intoccabile? Che è un’opera che diventa dogma per il genere e la corrente cinematografica a cui fa riferimento? Che può essere visto infinite volte e notare ogni volta un nuovo dettaglio?
Tutte queste definizioni sono valide, ma non esaustive. Il capolavoro deve essere un’opera unica nel suo genere, la vetta del Monte Olimpo, dove solo i grandi artisti risiedono. O meglio, perdonate il francesismo, dove l’Auteur risiede.
Il regista, sceneggiatore, produttore, produttore esecutivo e attore Tommy Wiseau, ironicamente, odia la parola francese. L’uomo dalla mascella scolpita nel marmo, dallo sguardo intenso, pregno di visibile pathos, e dai capelli corvino che ricordano la celluloide delle prime pellicole cinematografiche, nonostante il cognome francofono, mostra un chiaro disgusto verso la lingua di Sartre e Camus. Nella sua opera madre, The Room (2003), Wiseau insiste nel definire il personaggio di Lisa come la “futura moglie” del suo Johnny, anziché usare il termine “fiancé”. Un semplice capriccio del regista? Forse, ma quando si parla di un regista come Wiseau, uno che governa il set con l’autorità di un Kubrick redivivo, è giusto pensare che ci sia ben altro in gioco: la dissociazione del sé in ogni aspetto della propria vita.
Nel film Wiseau interpreta Johnny e ci è dato sapere solo il suo nome, non il cognome. Svista in fase di sceneggiatura? No, si tratta di una mossa deliberata, per strappare ogni brandello di finzione dalla realtà del film. Johnny è Wiseau, ma senza quel cognome francofono che lo infastidisce. Invece di sostituirlo, il regista lo esclude dagli eventi. L’identità del personaggio diventa superflua, e da questa scelta si scatena un effetto domino.
I suoi amici, i personaggi comprimari, vengono strappati di un’identità definita, ridotti a semplici macchiette fuori posto nel contesto che circonda Johnny. Rimangono nebulosi i dettagli della sua vita, del suo passato, della sua famiglia e del suo lavoro. Persino le foto che risiedono sui suoi scaffali rappresentano non cari ricordi o eventi passati, ma bensì cucchiai. Ciò che normalmente dovrebbe essere un memento della vita del personaggio è ridotto a un prodotto, alla rappresentazione della sterilità della sua esistenza. Magritte disse Ceci n’est pas une pipe, e Wiseau gli risponde a tono Ceci n’est pas une cuillère. Solo, probabilmente non risponderebbe in francese.
In The Room regna un senso di surrealità, confusione e insensatezza paragonabile, se non superiore, al miglior Lynch o Cronenberg. Ci sono scene che si susseguono con rapidità spiazzante, altre che invece si ripetono apparentemente all’infinito, come l’annuncio del cancro al seno della madre di Lisa. La simpatica anziana ripete la sua condizione con assoluta nonchalance, quasi con divertito distacco. Perché? Chi potrebbe mai vivere una malattia simile così serenamente? Chi, se non… un’attrice, che non è realmente malata.
Wiseau abbatte la quarta parete, ma non strizza l’occhio allo spettatore. Invece crea una seconda realtà paragonabile al Metateatro Brechtiano. Gli attori sono i personaggi, i personaggi sono gli attori, il regista è l’attore, il produttore è l’attore, lo sceneggiatore è l’attore, Johnny è Wiseau e Mark, il suo migliore amico, è solo un pollo. Chip chip chip, dice Johnny, durante un litigio con Mark, il suo migliore amico. Parole taglienti nella loro semplicità, l’insulto di chi riconosce la mancanza di significato del suo mondo e la rigurgita verso le persone che dovrebbero averlo a cuore, ma che in realtà sono false come i cucchiai nelle cornici appese per le mura della sua casa.
Il mondo dipinto da Wiseau, un mondo dove chi lo ama lo fa ironicamente e i suoi talenti sono oggetto di ridicolo piuttosto che di serio apprezzamento, è uno dominato dall’ipocrisia e dalla falsità ed il peso che quest’ambientazione ha sull’uomo è intollerabile. In una scena incredibilmente coraggiosa, Johnny urla senza inibizione la sua frustrazione:
“Mi stai dilaniando, Lisa!”.
Una semi-citazione a quel James Dean di Gioventù Bruciata, l’urlo di un ragazzo in preda alla confusione causata da un mondo che lo rifiuta per nessun motivo. Chi dovrebbe essere la sua futura moglie, lo tradisce con chi dovrebbe essere il suo migliore amico, Mark. La realtà che Johnny percepisce sembra molto diversa da quella che il resto dei personaggi vivono, e Wiseau non si lascia sfuggire questo dettaglio. In quella che forse è la scena più famosa del film, Johnny si adira per la bugia sul suo conto, di aver picchiato la sua futura moglie.
Non l’ho colpita, non è vero, è una stronzata! Non l’ho colpita, non l’ho fatto!
Oh, ciao Mark!
In primis, Wiseau si fa innovatore della Settima Arte, scegliendo di doppiare sopra alla scena originale senza far combaciare le parole al labiale. La divisione fra realtà e percezione si riflette anche nel montaggio del film, in un atto che farebbe invidia anche a Jean-Luc Godard. Possiamo inoltre notare come la presunta rabbia di Johnny si placa non appena vede il suo migliore amico, Mark, a cui porge il saluto. I contatti nella vita di Johnny sono allo stesso tempo ciò che animano e placano il suo spirito, una dualità che pone l’essere al centro in tensione, dove la linea tra Ying e Yang si fa sottile e tremula.
Infine, lo stesso Mark, il suo migliore amico, si trova inspiegabilmente sul tetto del suo appartamento, cosa che non ha apparentemente senso, a meno che non la si interpreti come metafora: se Wiseau dirige il set metafisicamente, Johnny trova Mark, il suo migliore amico, in un luogo dove non dovrebbe essere perché Mark lo sta tradendo con la sua futura moglie, e invade allo stesso modo la sua proprietà come il suo letto. I personaggi occupano quindi lo spazio del set come lo spazio mentale del regista che li dirige.
Wiseau finisce il suo capolavoro distruggendolo. Distrugge il suo set, distruggendo la propria camera, quelle foto di cucchiai, quei simboli di falsità che tormentano Johnny; distrugge la sua performance, privando lo spettatore di uno sfogo di rabbia genuina e invece soccombendo all’ipocrisia del suo mondo, agendo nella sua distruzione con svogliata e annoiata frustrazione. Distrugge il suo personaggio, piantando una pallottola nella sua gola. Il colpo di genio, tuttavia, può essere riconosciuto solo dopo aver finito la visione del film. Una veloce ricerca su Google rivela le ambizioni del regista: Wiseau pagò un cinema per proiettare il film per due settimane pur di tenere in vita la possibilità di una candidatura agli Oscar.
L’ultima istituzione da distruggere, per Wiseau, è Hollywood stessa. L’idea che il cinema appartenga solo ad autori affermati, corporazioni monopolistiche e uomini di bella presenza, e non a un singolo artista visionario. Perché cos’è un artista, se non un uomo desideroso di eccellere contro ogni probabilità? Cos’è un capolavoro, se non l’apice del suo narcisismo? Cos’è un film, se non la distruzione della realtà da cui scappiamo? Cos’è un Pesce d’Aprile, se non una scusa per scrivere più di mille parole per sfottere un povero cristiano come Tommy Wiseau, che cercava di fare un capolavoro nonostante la sua assoluta e ben documentata inettitudine?
Cos’è Suicide Squad, se non un film peggiore di The Room?
Vabbè , mi sa che avete capito il nocciolo della questione, inutile dilungarsi. Ci si vede l’anno prossimo, buon Pesce d’Aprile!
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