Almodóvar – Melanconia a Colori

Elena Matassa

Giugno 10, 2019

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Rievocare Almodóvar si può in primis grazie alla tenacia dei colori nei suoi film. Ben impressi nel nostro ricordo e decisi, non si perdono in sfumature vaghe o in pastelli; il regista spagnolo li usa consapevole della loro carica non solo prepotente ma anche simbolica.  Chi ama il cinema di Almodóvar non è esente dal fascino dei fuochi d’artificio delle sue immagini.

La ricercatezza nell’uso del colore in maniera totale ed estetizzante non costituisce però in questo caso un ripiego dell’arte su se stessa, proprio per la sua valenza simbolica. Dietro i rossi, i blu elettrici, i gialli c’è la vasta gamma di passioni che Almodóvar intende rappresentare. Se per alcuni, i più critici nei confronti del suo cinema, il teatro delle passioni di Almodóvar è troppo tendente al kitch e al melò, tanto da allontanarsi dalla vita vera e diventando un teatro di marionette imbalsamate e finte perché esagerate, per altri le immagini fluo e le passioni infuocate dei suoi personaggi hanno una valenza generalmente catartica e quindi purificatrice, dove l’estremismo che sfiora (o a volte tocca con mano) il ridicolo viene perdonato dallo spettatore che ne coglie l’ironia.

Il regista spagnolo ha una lunga carriera dietro di sé, che inizia negli anni ottanta, dopo la caduta del regime di Franco, quando i suoi film provocatori ben incarnano lo spirito rivoluzionario della controcultura madrilena. Sfacciati film che vogliono negare e infastidire il perbenismo borghese, con personaggi spesso borderline, forti di una sessualità diversa e/o implacabile, che inseguono le proprie vite fino in fondo. Le storie d’amore estreme sono al centro delle sue trame. E la carriera di Almodóvar continua fino all’ultimo Cannes, con alti e bassi.

È uno di quei registi ben riconoscibili, e una tra le costanti è appunto la passione (nell’origine greca della parola) di ogni personaggio che si cela dietro al colore.

Almodóvar può essere condensato nella dialettica tra tre delle componenti fondamentali del suo cinema: passioni-mescolanza di generi-personaggi, che si possono anche semplificare e tradurre in vita-cinema-vita, in un movimento circolare che compie nei suoi film. Il rapporto tra finzione e realtà è infatti uno dei temi ricorrenti in Almodóvar, dove la finzione catartica prende spesso il sopravvento e la verità è consegnata in mano all’arte, alla finzione, al cinema.

I generi si intersecano alla sua maniera unica, e le storie del melodramma sono imbastite in una struttura da noir e da giallo. Ma andando oltre il genere verso una visione più macro, si può guardare ad Almodóvar come figura chiave del cinema postmoderno spagnolo, innanzitutto proprio per i suoi colori fiammeggianti, da immagini-fuochi d’artificio, ma anche per il suo collocarsi a metà tra la dimensione del cinema autoriale e una produzione più commerciale che sa parlare con le masse (prerogativa del grande cinema postmoderno secondo lo studioso Laurent Jullier).

Un esempio – Gli abbracci spezzati

“I film bisogna finirli, anche se alla cieca!”

A proposito di generi mescolati, un buon esempio Almodóvar ce lo fornisce con Gli abbracci spezzati, film con cui concorreva a Cannes nel 2009 (quasi ignorato, in quell’edizione del festival, quanto il suo collega Quentin Tarantino che presentava Bastardi senza Gloria. Oggi, dieci anni dopo a Cannes i due hanno ottenuto il riconoscimento meritato?).

La storia è tutta nel passato. Una trama complessa che lo spettatore ha il piacere di scoprire pian piano come in un giallo, dove i pezzi dell’identità del protagonista Harry Caine, un regista cieco, vengono ricostruiti pian piano attorno a un tragico incidente avvenuto quattordici anni prima del presente narrato. Nell’incidente, in seguito al quale Harry cambia identità e nome, il regista ha perso Lena, l’amore della sua vita, un’attrice legata ad un altro uomo (anziano e potente) ma innamorata di Harry.

Con Lena, Harry stava girando il film Ragazze e valige, ma prima della conclusione del lavoro di post produzione sul film, il materiale viene manomesso e Ragazze e valige viene fatto uscire montato male, con tutti i ciak sbagliati, un film-mostro. L’opera di distruzione del film viene fatta per mano del fidanzato geloso di Lena, poco prima del fatale incidente durante una fuga d’amore di Lena e Harry, dove la prima perde la vita e il secondo la vista.

Il modo in cui la storia viene raccontata, attraverso i flashback del cieco e brandelli di racconto svelati da parte di personaggi diversi, mette lo spettatore sul sentiero di una verità da scoprire, una verità sul passato che ha ancora qualcosa da dire sul presente. Il potere di verità di una storia. È per questo che anche se Lena (Penelope Cruz) è presente solo nel passato, è lei la protagonista femminile de Gli abbracci spezzati.

Il passato e i morti sono irrecuperabili, ma ciò che può tornare è un nuovo sguardo sui ricordi, una nuova consapevolezza. Appena prima dell’incidente, un filmato che lo documenta rivela un bacio che i due amanti si scambiano, un bacio ordinario “uno di quei baci che gli innamorati si danno per inerzia ”. La riscoperta di questo gesto da nuova vita al passato, conferisce al film un potente risvolto malinconico, di quella malinconia infiammata, spagnola, che arriva alla fine di una storia forte. Una malinconia amara e toccante che spesso incontriamo attraverso i personaggi di Almodóvar.

E il dono di quel bacio dimenticato viene proprio dal cinema stesso, vero protagonista de Gli abbracci spezzati. Sono le immagini riprese da videocamere, i film e documentari presenti all’interno film a consegnarci la verità. Il lieto fine nasce infatti dalla possibilità di rimontare Ragazze e valige da parte di Harry Caine e il titolo Gli abbracci spezzati si riferisce a una scena in cui Lena e Harry guardano un vecchio film di Rossellini, Viaggio in Italia.

Per un feticista dell’immagine e del colore, lo sforzo di Almodóvar consiste nel domandarsi e domandarci attraverso questo film: cosa possono raccontarci davvero le immagini?

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