I Fratelli Coen.
«L’assurdo nasce dal confronto tra la domanda dell’uomo e l’irragionevole silenzio del mondo».
(Albert Camus)

Artisti che hanno subito la condanna di nascere nell’era del postmoderno, uomini che, vivendo nell’oblio dell’assurdo, necessitavano di raccontarlo, autori che, più che dare una risposta, tentano di far emergere la necessità della domanda.
Joel e Ethan scrivendo, dirigendo e soprattutto vivendo dovettero incontrare la dinamicità del reale. Questo incontro, però, si rivelò un autentico scontro perché esso apparve ai loro occhi come privo di giustificazione, senza ragione; eppure, profondamente tangibile.
Il reale si manifestò ai Coen come pura contingenza, pura indeterminatezza, spiegata dal protagonista di A Serious Man, il professor Gopnik, che analizzando il principio di Heisenberg, sosterrà come «il principio di indeterminazione dimostra che non possiamo mai sapere davvero che cosa accade…».
Gli autori, incarnando la caduta dei valori della loro epoca, ricercarono una via da percorrere, un luogo, una radura dove potersi esprimere. Al loro appello rispose solo l’assordante silenzio di Dio, o di qualsiasi altro principio ordinatore.
I fratelli Coen decisero di intraprendere l’unica direzione a loro rimasta, di far propria l’irragionevolezza che permea il mondo, incorporando così la forza che cela l’Assurdo e scoprendo come l’autentico senso risieda proprio nell’insensatezza.
Da queste premesse nascono le storie dei Coen. Storie aggrovigliate in cui la fine si confonde con l’inizio, costruite come castelli di carta che crollano su se stessi, in cui avvengono malintesi, imbrogli e colpi di scena capaci di far perdere il senso dell’orientamento.
Il loro cinema è popolato da personaggi in crisi d’identità che non trovano il proprio posto in un mondo ormai orfano di ogni certezza. Questa crisi dell’uomo moderno viene rappresentata da uno dei loro grandi capolavori, il manifesto di tale tematica: L’uomo che non c’era.

Questo film racconta la storia di un barbiere, Ed Crane, un personaggio che concretamente è un uomo che non c’è, un fantasma, che è assente nella sua presenza. Un protagonista che vive passivamente, lasciando scorrere accanto a sé tutto ciò che accade, come lacrime nella pioggia.
Quest’opera coeniana mostra la crisi del singolo nella società attuale, di un uomo che non riesce a trovare un luogo dove sentirsi al riparo di fronte all’abissale indifferenza del mondo e degli altri.
L’uomo che non c’era potrebbe essere considerato un saggio sull’angoscia kierkegaardiana, sulla nausea sartriana o la trasposizione cinematografica della condizione umana de Lo straniero di Camus.
«La vita mi ha servito delle mani perdenti, o magari non le ho sapute giocare, chissà… Ora volevo parlare, ma non avevo nessuno accanto a me: ero un fantasma, non vedevo nessuno, e nessuno vedeva me. Ero il barbiere…»
In piena crisi esistenziale, un uomo solo e abbandonato, affrontando tutto con un’imperturbabile apatia, viene soffocato dall’imprevedibile volontà del Caso. Ed Crane è così aggiunto all’interminabile lista di perdenti che i Coen decidono di raccontare. Il loro cinema, paradossalmente, ama i propri personaggi, ma al tempo stesso non è in grado di salvarli, perché il caso, il caos, l’assurdo o qualunque cosa sia, è sempre inevitabilmente un passo avanti.
I film dei Coen potrebbero essere descritti come dei puzzle con dei pezzi mancanti, mancanti non perché siano scomparsi o andati persi, ma proprio perché è composto in questo modo il puzzle. Così accade nelle loro storie, che appaiono prive di logica, senza reali giustificazioni, proprio perché così si rivela il mondo ai loro occhi. I due narrano di ciò che esperiscono nel quotidiano, non osano conferire valore o superiorità morale a qualcosa rispetto ad altro, ma lo esprimono senza filtri, così come accade.
Non avrebbe senso sostenere come il mondo sia tragico o malvagio, per i Coen la realtà non è buona o cattiva, ma è semplicemente se stessa, in tutte le sue forme. Ciò viene accettato dai registi, tanto che in una visione d’insieme il paradosso quasi non risulta paradossale, ma non dai personaggi, che si ostinano a cercare un briciolo di ragionevolezza, di necessità in un mondo così fragile.
Questo è l’esempio di A Serious Man, film emblema della filosofia coeniana, in cui il protagonista, Larry Gopnik, è un uomo moderno, che, da un momento all’altro, si trova a dover fronteggiare delle disavventure assurde e contraddittorie, come accadde a Ed Crane o al Drugo Lebowski.

Larry, l’uomo moderno, l’uomo serio, va alla ricerca di una ragione, di qualcosa che gli permetta di capire perché tutto ciò stia accadendo proprio a lui, che gli permetta di alzarsi alla mattina e affrontare il mondo con un minimo di speranza. Tutto questo, però, non lo porta a reagire, ma a osservare passivamente il suo reale crollare pezzo per pezzo, rimanendo completamente immobile, perché per lui tutto deve avere un senso, perché ci deve essere un piano che giustifichi anche la tragedia più incomprensibile.
Così il nostro protagonista ebreo chiede a tre rabbini perché Dio non dona risposte. Larry non ottiene una soluzione e, rivelando l’insensatezza tragica della sua esistenza, è costretto ad affrontare, solo e senza aiuto, tutto ciò che accade. Questo film è la degna rappresentazione della solitudine esistenziale dell’individuo contemporaneo, abbandonato all’ascolto del silenzio di quel Dio che ormai, come annunciato da Nietzsche, è morto.
I Coen mostrano un mondo che succede indipendentemente dalla volontà dei singoli, un mondo a cui noi necessitiamo di conferire valore, ma che accade di per sé senza alcuna buona ragione.
Anche quando sembra tutto concludersi per il meglio, quando l’ineludibilità del Caso sembrava essere sopraffatta dalla volontà umana, ancora l’Assurdo prende il sopravvento; questa volta, nell’ultima inquadratura, attraverso le forme di un uragano. A Serious Man, più che un dramma comico e paradossale, è un’angosciante analisi sul senso dell’esistenza e sull’ipotetica salvezza conferita dalla religione.
I Coen vogliono mostrare l’assurdità del Caso, la sua irragionevolezza e totale indifferenza verso le sorti degli uomini. Così facendo attribuiscono forma al Caso, lo modellano e gli conferiscono sembianze umane. Nel loro cinema il Caso, mescolandosi nel Caos e nell’Assurdo, assume un ruolo centrale, diviene un reale personaggio che agisce da elemento ordinatore ignorando i destini dei loro soggetti. I registi riescono a trovare così un personale ordine nell’ineffabilità del Caos.
Questa dinamica è perfettamente rappresentata nella loro commedia drammatica, ai limiti del tragico, Burn After Reading. In questa storia grottesca i personaggi sono volutamente ridicoli, tendenti all’assurdo e inconsapevolmente alienati da una società opprimente.
In quest’opera vengono presi in esame i rapporti umani nelle loro più orribili degenerazioni, rivelando la banalità del bene di quella piccola America chiusa e cinica, che vive la propria quotidianità fatta di indifferenza e brutalità.
I personaggi sono incatenati dai propri problemi, dalla paura della solitudine, dall’ossessione per la bellezza, dalla volontà di trasgressione, dall’alcool. Problemi che però vengono nascosti, e ognuno cerca di sfuggire da se stesso, non affrontando così le proprie debolezze.

In questo incatenarsi di vicende tra una ex spia, dei dipendenti di una palestra, degli intrighi amorosi e la CIA, avvengono una serie di inspiegabili eventi casuali dovuti a fraintendimenti che condanneranno tutti i personaggi a una situazione assurda di kafkiana memoria.
I Coen, attraverso la forza dirompente del Caso che diviene Caos, raccontano una storia dai tratti insensati, in cui si creano contesti paradossali e ridicoli. Ma proprio qui, nell’assurdità generale, i due autori rivelano al mondo il loro pensiero, rivelano come il senso risieda proprio nell’assenza di senso.
Tutti i personaggi, come fossero in terza persona, vedono cambiare radicalmente la loro vita, alcuni sono addirittura costretti a vedere la morte in circostanze insensate e prive di logica. E in tutto questo non c’è alcuna ragione, alcun piano.
Presidente Cia: «Cristo, che cazzo di casino!».
Agente Palmer: «Già!».
Presidente Cia: «Che abbiamo imparato, Palmer?».
Agente Palmer: «Non lo so, signore».
Presidente Cia: «Non lo so nemmeno io… Forse abbiamo imparato a non farlo più!».
Agente Palmer: «Sì, signore!».
Presidente Cia: «Anche se non so cosa abbiamo fatto!».
Agente Palmer: «Sì, è difficile… A dirsi».
Presidente Cia: «Cristo, che cazzo di casino!».
I Coen, con una rara consapevolezza autoriale, donano un pezzo di sé in ogni loro opera. In questo modo, è possibile trovare in ogni loro film un richiamo, seppur lieve, all’esistenzialista Albert Camus.
La sua filosofia tematizza il concetto di Assurdo, e, d’accordo coi Coen, sostiene come la nostra sia la realtà senza ragione, una realtà priva di logica o senso da attribuire preliminarmente al mondo.
In Camus, come nei Coen, il mondo è Assurdo, accade così come accade, ma ciò deve essere inteso non in quanto termine della ricerca, ma come suo autentico inizio.
L’uomo è così condannato a essere straniero nel mondo, e, come Sisifo, consapevole della tragicità dell’esistenza. Ma sta a me, singolo individuo, trovare un autentico senso da attribuire al mondo, e lottare per esso nonostante la totale assurdità che lo caratterizza.
I Coen per fare tutto ciò hanno scoperto una possibile certezza, un ipotetico appiglio. I Coen hanno intrapreso la via segnata da quell’insuperabile arte che è il Cinema.

Padre: «Scontro culturale! Lei diffama, materia per denuncia!»
Larry: «Mi faccia capire, lei minaccia di denunciare me per aver diffamato suo figlio?»
Padre: «Sì».
Larry: «Non capisco… ma potrei fingere che i soldi non siano mai apparsi, così non si diffama nessuno».
Padre: «Sì, ma con una sufficienza all’esame però…».
Larry: «Quindi o una sufficienza o mi denuncerà?».
Padre: «Sì, lei ha intascato soldi!».
Larry: «Ma, quindi suo figlio gli ha lasciato quei soldi…».
Padre: «No, questa è diffamazione!».
Larry: «Non ha molto senso, o lui ha lasciato i soldi oppure no…».
Padre: «La prego… accetti il mistero!».
I Coen ci suggeriscono di accettare il mistero che la vita, soggiogata dalle forze del Caso, è ancora in grado di serbare. Ci suggeriscono di accettare il mistero e di viverlo attivamente, non osservando apaticamente il reale come i loro protagonisti.
Bisogna quindi abbandonare l’ingenua pretesa di poter conferire un ordine prestabilito al mondo, ed è necessario viverlo e amarlo anche nella sua più totale assenza di significato.
Occorre accettare il Caos e, magari, scherzarci su, prenderlo alla leggera, un po’ come vive il personaggio forse più consapevole della filosofia coeniana.

Il drugo: «Questa è solo… La tua opinione e basta…».
Ed ecco che l’intreccio tra i Fratelli Coen e Albert Camus si rivela essere sempre più tangibile, poiché, come sosterrebbero all’unisono, «bisogna immaginare il Drugo felice».