Blade Runner, il manifesto della cultura postmoderna. Un’opera che oscilla tra la fantascienza e il noir, tinteggiandosi di pennellate filosofiche ed esistenzialiste. Un film che non conosce, e sovrasta, i limiti del tempo. Un capolavoro non replicabile.
Forse non possediamo ancora macchine volanti, ma viviamo in luoghi sconfortanti e sovrappopolati, essendo al contempo desolati. Non siamo ancora giunti alla Los Angeles teorizzata da Scott, ma stiamo facendo di tutto per ottenerla. L’astrazione degli aspetti più mostruosi della società contemporanea, che in Blade Runner vengono enfatizzati, la stiamo concretizzando sempre più. È come se, piano piano, ci addentrassimo, con gli occhi bendati dalle nostre stesse mani, in una sorta di Inferno dantesco caratterizzato non da fuoco ma da smog, non da sangue ma di rifiuti.
Forse non esistono ancora i replicanti, ma ci ritroviamo sempre più soli e persi, lontano da noi stessi. Non ci sono androidi che mettono in crisi il concetto di identità umana, eppure non abbiamo la minima idea di chi o cosa vediamo davanti allo specchio. La nozione di soggetto è irrimediabilmente decostruita perché non siamo più in grado di cercare, o almeno tentare di cercare, chi siamo. Abbiamo perso anche il più sottile ancoramento, non siamo più in grado di distinguere tra reale e fittizio, e rimaniamo sospesi, bramando qualcosa senza sapere davvero cosa.
Nella liquidità della nostra abituale esistenza, affoghiamo nella fragilità del bene e del male, in una superfice profonda.
Affoghiamo come lacrime nella pioggia.
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