Chi siamo? Da dove veniamo? Cosa facciamo? Che significato ha la morte? Quale senso ha l’esistenza?
Queste sono le classiche domande che accompagnano il percorso dell’uomo nella storia dei secoli. Sin dal primo sguardo rivolto verso l’alto, perdendosi nell’infinita profondità di una notte stellata, l’uomo fu avvolto da un alone di dubbio e inquietudine rispetto al proprio posto nel mondo.
È un tratto eminentemente umano quello del domandarsi, del concepire sé stessi come appartenenti a una storia, come se si fosse all’interno di una narrazione che debba trovare una risposta a quegli interrogativi, che debba essere in grado di raccontare una fine, trovando così il giusto posto alle cose: quel petalo di quel fiore, quella lacrima su quel viso, quel ricordo in quella memoria. Tuttavia, queste angosciose domande attanagliano la mente anche di un replicante, di colui che, paradossalmente, è al contempo più vicino e lontano a un essere umano, di Roy Batty.
Roy Batty è un replicante, un androide non nato ma creato, condannato a vivere nelle colonie extramondo come schiavo. Lui, come tutti i suoi simili, sono progettati per assomigliare il più possibile agli umani, pur essendo dotati di capacità intellettive e forza fisica radicalmente superiori. La Tyrell Corporation, volenterosa di trascendere i limiti della materia per ottenere un essere addirittura più umano dell’umano, dovette assicurare un’equilibrata stabilità mentale alle proprie creazioni, e così decise di innestare artificialmente ricordi d’infanzia, esperienze e momenti passati ai quali il replicante potesse aggrapparsi per non cadere, per riconoscere qualcuno nel proprio riflesso allo specchio, per essere il racconto di sé stesso, per sognare la notte, forse accompagnato dalle classiche pecore elettriche.
I replicanti, ideati ad immagine e somiglianza della migliore possibilità dell’essere umano, è come fossero figli dell’uomo, creazioni di una mente, prodotti di una volontà; e interiorizzandone le sfumature, i gesti e le ombre, è come se divenissero in grado di esprimere emozioni proprie, sensazioni meravigliosamente uniche e autentiche. Tuttavia, una candela che brucia con una doppia fiamma resiste la metà del suo tempo, e così questi replicanti posseggono una longevità di soli quattro anni; come se la loro grandezza li rendesse alla fine molto piccoli di fronte alle infinite porte che la realtà permette di dischiudere.
Una volta consapevole di tale condanna, Roy Batty si ritrova a dialogare con un’essenza che, piano piano, inizia ad assumere le sembianze della finitudine, di una fievole voce che gli sussurra il suono delle lancette dell’orologio degli androidi. Il replicante, attanagliato da dubbi e incertezze che nascondono anche il più fedele appiglio, decide di recarsi sulla Terra, alla Tyrell Corporation, nel luogo della propria creazione; dove, in quanto androide, è ora concepito come un bandito e ricercato dai cacciatori di replicanti, dalla squadra speciale Blade Runner, personificata da Rick Deckard.
“Io voglio più vita, padre!”
Roy riuscì a compiere qualcosa che l’essere umano ha tentato invano di ottenere per lunghissimo tempo, qualcosa che riuscì a smuovere le coscienze di intere popolazioni, qualcosa per cui tante persone hanno ormai perso le speranze. Il replicante riuscì ad incontrare il proprio Dio.
In questo mondo, l’essere umano assume il ruolo di Dio, e le sue creazioni, i replicanti, si ritrovano alla ricerca di quelle certezze che l’uomo da sempre desidera. Roy riuscirà ad incontrare il Dr. Tyrell, la propria ragione di vita, il motivo della propria esistenza, colui che idealmente riuscirà a donare ogni risposta, risolvere qualsiasi male, soddisfare qualsiasi aspirazione.
Roy: Non è una cosa facile incontrare il proprio artefice!
Tyrell: E che può fare per te?
Roy: Può l’artefice ritornare su ciò che ha fatto?
Tyrell: Perché? Ti piacerebbe essere modificato?
Roy: Avevo in mente qualcosa di un po’ più radicale…
Tyrell: Quale… Quale sarebbe il tuo problema?
Roy: La morte.
Tyrell: La morte… Be’, questo temo che sia un po’ fuori della mia giurisdizione, tu…
Roy: Io voglio più vita, padre!
[…]
Tyrell: (…) Siete stati fatti al meglio delle nostre possibilità.
Roy: Ma non per durare…
Tyrell: La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo. E tu hai sempre bruciato la tua candela da due parti, Roy. Guardati: tu sei il figliol prodigo. Sei motivo d’orgoglio per me.
Roy: Ho fatto delle cose discutibili…
Tyrell: Anche delle cose straordinarie, Roy. Godi più che puoi!
Roy: Cose per cui il Dio della biomeccanica non ti farebbe entrare in paradiso…
La richiesta di Roy Batty, espressa con un’apparente calma e sicurezza, nasconde dentro di sé un’insopprimibile angoscia e disperazione, poiché riguarda la possibilità di un prolungamento della vita dei replicanti, la possibilità della propria sopravvivenza. La brama del replicante è pura e semplice volontà di vivere, volontà di ricordare, di immaginare, di sognare.
Tuttavia, quando Roy riceverà la risposta negativa professata dalle labbra del proprio Dio, quel Dio che sosterrà di non essere in grado di modificare il sistema, acquisirà la triste consapevolezza dei limiti del proprio creatore.
Il Dr. Tyrell si rivelerà essere un umano troppo umano, sosterrebbe l’eterno Nietzsche; una frustrante delusione per Roy Batty che, in un colpo solo, prese coscienza della fallibilità del suo Dio e dell’inevitabilità della propria imminente fine.
Il replicante, attraverso un bacio d’addio nei confronti del suo creatore, decise di uccidere il Dr. Tyrell, di compiere l’atto del parricidio, di recarsi al di là del bene e del male, poiché si sentì tradito e ingannato da un Dio non misericordioso che gettò le proprie creature, più umane degli umani, nel terrificante mondo degli schiavi.
Attraverso l’atto del parricidio, Roy Batty segna la fine alla propria giustificazione e fondamento, ritrovandosi così solo con sé stesso, avvolto da sempre più dubbi esistenziali che però, ora, non potranno essere risolti da alcun creatore onnisciente. In questo senso, come Nietzsche annuncia la morte di Dio, Roy Batty uccide il proprio Dio. Se per il filosofo tedesco ciò implica la trasvalutazione di tutti i valori, per il replicante emerge la possibilità di effettiva realizzazione di sé.
Assassinando il Dr. Tyrell, Roy Batty inizia svestire i panni di mera copia di qualcosa, e comincia a percepirsi come uno spirito libero, assumendo lentamente le sembianze dell’oltreuomo di nietzschiana memoria, ossia di quell’entità in grado di superare l’uomo per recarsi al di là della sua condizione.
Il replicante imparerà ad accettare la morte, a volere il proprio destino, a reclamare tale fato, avvicinandosi sempre di più ad essere affermazione e superamento di sé, manifestazione di pura volontà di potenza, e quindi di vita.
“È tempo di morire”
Il percorso esistenziale che conduce il replicante Roy Batty oltre la fallimentare dimensione dell’umano, avviene attraverso un costante dialogo con la morte. Il grande filosofo novecentesco Martin Heidegger definirebbe i replicanti degli esseri-per-la-morte, ossia delle creature che concepiscono la finitezza come una possibilità eminentemente propria, con la quale si rapportano e danzano perpetuamente. Tuttavia, solo nel finale, nello scontro tra il blade runner e il replicante che tenterà di vendicare l’assassinio dei propri amici, Roy Batty concepirà la morte come ciò che dona valore alle sue azioni, ciò che rende autenticamente umani.
Alla fine del combattimento, Rick Deckard, ormai destinato a morire, sta per cadere da un precipizio, ma proprio quando l’ultimo barlume di resistenza sta per rassegnarsi, l’androide gli afferra il braccio e decide di trarlo in salvo. Roy Batty, il replicante ormai furente e deluso dagli umani, decide di salvare la vita a Deckard, al suo nemico e inseguitore, a colui che uccise la sua amata Pris, esprimendo un’autentica grazia e pietà che nessuno ebbe mai nei suoi confronti.
Nell’inquietudine di Deckard, Roy Batty riconosce l’angoscia di ogni uomo di fronte alla morte e, per la prima volta, riconosce sé stesso nell’Altro. Salvando il Deckard, il replicante salva sé stesso, poiché attraverso la pratica del riconoscimento è come se divenisse effettivamente un essere umano, uno spirito libero. In questo modo, Roy Batty, osservando sempre più chiaramente l’avvicinarsi del proprio orizzonte, sceglie la vita, la vita in quanto tale, la vita di chi voleva ucciderlo, incarnando così il vero significato dell’esistenza.
“Io non so perché mi salvò la vita. Forse in quegli ultimi momenti amava la vita più di quanto l’avesse mai amata… Non solo la sua vita: la vita di chiunque, la mia vita. Tutto ciò che volevano erano le stesse risposte che noi tutti vogliamo: “Da dove vengo?” “Dove vado?” “Quanto mi resta ancora?” Non ho potuto far altro che restare lì e guardarlo morire.” (Rick Deckard)
Consapevole della morte, e quindi della vita, il replicante realizzerà il suo percorso esistenziale, poiché solo arrendendosi al proprio destino diverrà autenticamente umano.
Roy sceglie di abbandonare questo mondo nel modo più umano possibile, perdendosi nelle malinconiche acque del proprio passato, accompagnato dallo sguardo di un altro essere umano e attanagliato da quei classici dubbi esistenziali. E ciò avviene attraverso il famoso monologo finale, il congedo di colui che prende coscienza di come la vita, umana o non umana, sia fragile e indicibile, di come ciò che è stato alla fine diverrà perduto, come lacrime nella pioggia.
“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione… e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.”
Roy Batty, il replicante che fu più umano degli umani.
E che dire dell’ipotetico artefice dello strano caso che vede la morte di Rutger Hauer, l’attore che personificò Roy Batty, proprio nel 2019, esattamente l’anno in cui il creatore Dr. Tyrell condannò Roy ad abbandonare il mondo dei vivi?