1926, Europa.
J. Robert Oppenheimer, dottorando ventiduenne, dopo essersi laureato ad Harvard, prosegue i suoi studi nel laboratorio di fisica sperimentale a Cambridge. Qui incontra Niels Bohr che gli suggerisce di recarsi a Gottinga per studiare fisica teorica. Frequentando le atmosfere misteriose e sempre più rivelatrici di un’Europa ormai alla fine, Oppenheimer stringe amicizia con molti fisici europei, incontrando anche il maestro della fisica quantistica Werner Heisenberg.
Statunitense di nascita, ma di origini ebraico-tedesche, in questo periodo della sua giovane vita Oppenheimer soffre di crisi esistenziali, angosce identitarie e visioni percettive, manifestando il profondo sottosuolo nascosto nella superficie dell’Europa.
Assorbendo osmoticamente la temperie culturale di questo spazio-tempo stoico, soggetto a contraddizioni, caduche cadute e mostruosità, Oppenheimer si rivela figlio disconosciuto della morte di Dio profetizzata da Nietzsche nel 1882 nella parabola del folle uomo. Tuttavia, come sostiene Albert Camus ne L’uomo in rivolta (1951) «Nietzsche non ha concepito il progetto di uccidere Dio. L’ha trovato morto nell’anima del suo tempo». Il filosofo tedesco divenne portavoce di una temperie culturale già esistente e pronta ad esplodere, che però necessitava una voce per esprimere un pensiero tanto abissale.
Lo svalutamento dei valori, la caduta delle certezze e la concretizzazione del nichilismo, fanno dell’inizio del Novecento europeo il proprio spazio-tempo di manifestazione, rendendo la conoscenza senza patria e tutti i saperi naviganti in un vortice senza direzione.
Il matematico tedesco Bernhard Riemann, nel suo scritto del 1854 Sulle ipotesi su cui si fonda la geometria, pubblicato postumo nel 1867, attuerà una rivoluzione sostanziale ipostatizzando la geometria non euclidea.
Nel 1895 Sigmund Freud pubblica L’interpretazione dei sogni ufficializzando la psicoanalisi e l’idea di inconscio.
Sempre nel 1895, i fratelli Lumière inventano il cinema, rivoluzionando la ricerca artistico-pittorica che sfocerà nell’astrattismo, cubismo, dadaismo e surrealismo. E, soprattutto, nei primi decenni del secolo scorso, avviene il rovesciamento delle certezze nell’ambito fisico, riconoscendo l’immagine della meccanica newtoniana e l’elettromagnetismo maxwelliano come sistemi insufficienti per circoscrivere l’infinito accadere del mondo.
Emergono così permettendo due autentiche rivoluzioni: la teoria della relatività di Albert Einstein, colmando lacune della fisica classica in merito alle grandezze dell’universo, e la teoria dell’indeterminazione di Werner Karl Heisenberg, rispetto alle unità atomiche costitutive della materia.
Nel 1905, a seguito della pubblicazione della breve memoria einsteiniana Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento, si concepisce la data di nascita della teoria della relatività ristretta. Il tempo, inteso da Einstein come la quarta dimensione della realtà, un continuo spazio-tempo in cui distanze e intervalli mutano a seconda del sistema di riferimento, diventa dunque relativo al quadro d’indagine, al soggetto esperiente, e quindi essenzialmente prospettico.
L’irriducibilità dell’osservatore è il punto cardine anche dell’altra teoria realizzata in forma d’equazione che ha sovvertito il panorama scientifico, le cui implicazioni fisiche e filosofiche saranno materie di discussione per l’intero secolo. La rivoluzione quantistica di Heisenberg, annunciata in un articolo apparso nel 1927 denominato Sui principi fondamentali della meccanica quantistica, rompeva il paradigma classico dell’indagine sul comportamento delle particelle elementari. Il principio di indeterminazione postula l’impossibilità di determinare contemporaneamente e con precisione assoluta la posizione e la velocità dell’elettrone, negando l’idea di poter fissare con certezza la traiettoria della particella, della quale non si può ottenere una conoscenza totale, scatenando così una rivoluzione epistemologica dovuta alla rottura del principio d’identità.
«Heisenberg immagina che gli elettroni non esistano sempre. Esistono solo quando qualcuno li guarda, o meglio, quando interagiscono con qualcos’altro».
(C. Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica)
Con Nietzche, l’Europa di inizio Novecento riconosce la possibilità di una verità, ma ne nega la caratteristica assoluta, eterna e immutabile, concependo la pluriprospetticità come sua dimensione e manifestazione più autentica: «In quanto la parola «conoscenza» abbia senso, il mondo è conoscibile; ma esso è interpretabile in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi: “Prospettivismo”»
J. Robert Oppenheimer, facendosi carico della morte di Dio nietzschiana e del prospettivismo culturale dilagante in Europa, ritorna negli Stati Uniti volenteroso a portare gli insegnamenti della meccanica quantistica. Il tentativo del fisico sembra senza possibilità, essendo l’America statunitense in tutt’altro clima storico-sociale. Al contrario di un’Europa distrutta e alla fine della sua storia, gli Stati Uniti d’America, non potendo riconoscersi in un passato remoto, sono ancora intenti a costruirsi un’identità stabile, dai valori ferrei e manichei. È il tempo della mitopoiesi dell’uomo e del sogno americano, è il tempo dell’Hollywood classica.
Tuttavia, nel 1929 Oppenheimer torna negli Stati Uniti, lavora presso l’università di Berkeley come insegnante di fisica teorica, nel 1939 pubblica La contrazione gravitazionale ipotizzando l’esistenza di buchi neri e stelle di neutroni. Nel 1942, infine, il governo degli Stati Uniti lo chiama per dirigere il progetto Manhattan per contrastare l’evoluzione tecnica proprio di quell’Europa che ha trovato la sua massima espressione nel nazismo tedesco.
J. Robert Oppenheimer, americano ma figlio di sangue e di cultura europea, analogamente a Friedrich Nietzsche, porta a compimento la metafisica: creatore della bomba atomica e distruttore di mondi.
Prospettivismo e percezione, dunque, sono i due mondi di intendere il Novecento occidentale.
Prospettivismo e percezione sono, tuttavia, anche i modi di intendere il film di Christopher Nolan.
Prospettivismo poiché l’intero film (o quanto meno la quasi totalità, chiudendo gli occhi qualche sbavatura) si chiude e si schiude all’intento della prospettiva di J. Robert Oppenheimer: è lui che scopre l’Europa accompagnato da visioni, è lui che racconta com’è andato il progetto Manhattan nel finto processo all’interno di uno sgabuzzino, ed è lui che prometeoticamente porta ad effettivo compimento l’evoluzione della tecnica.
Di conseguenza, il film non potrà che essere percettivo poiché, se rimaniamo nei limiti e nelle possibilità di una variegata prospettiva, questa non potrà che essere eminentemente percettiva.
Nolan, infatti, essendo un grandissimo conoscitore del linguaggio cinematografico, analogamente alle tecniche utilizzate per Memento, non farà altro che mostrare percettivamente la prospettiva di J. Robert Oppenheimer. E dunque, non viene solamente mostrato Oppenheimer soggetto a visioni mistico-esistenziali da una prospettiva terza e neutra, ma attraverso specifiche tecniche Nolan tenta di mostrarne cinematograficamente la percezione. Stesso discorso, nella scena del film quando Oppenheimer deve fare un discorso al pubblico dopo la vittoria della guerra. Qui il cinema non è occhio neutro e onnisciente, ma profondamente incarnato linguisticamente.
È certo utilizzo dell’inquadratura, frutto di un certo uso di ottiche e di profondità di campo, è un certo utilizzo del montaggio, è un certo utilizzo del sonora. È un certo utilizzo delle varie possibilità dell’immagine-sonorizzata-in-movimento intesa come linguaggio che fanno del cinema una possibilità percettivo-prospettica.
Christopher Nolan, facendosi portavoce di un cinema prospettivo e percettivo, fa del linguaggio cinematografico una tecnica che, essendo tale, trova la propria ragione di vita solo nell’evolversi della propria potenza.
Cosa che J. Robert Oppenheimer conosce fin troppo bene.