Buongiorno Tokyo: L’ultimo mattino di Perfect Days
Perfect Days: Si dice che al mattino c’è da fare e la sera da pensare.
Ogni volta che mi capita di scorgere “Le Palme Selvagge” in un film, il pensiero mi porta ad Agnès Varda e il suo La Pointe Courte. Una fotografa poco più che ventenne che gira un piccolo miracolo in bianco e nero liberamente ispirato al romanzo di Faulkner dove due storie sembrano non incrociarsi mai. La Varda ebbe modo di dire che in quel film “vince la materia”.
Parlare di materia in Giappone è come sostare su un campo minato. Un paese che ha subìto l’ira dei mari, che si adagia su un terreno che registra mediamente quattro terremoti al giorno, dove le persone portano la mascherina da tempi non sospetti per uno sguardo incerto verso l’aria che le circonda. Dove alzare gli occhi al cielo è quasi un rituale sfortunato poiché ricorda le bombe.
Hirayama gli occhi al cielo li alza.
Con quel gesto contrario al rito cortese dell’inchino e con un’attitudine opposta a quella del voler stare il più possibile accovacciato ad altezza tatami. Il sintomo di un uomo diviso a metà tra il suo pensiero che lo proietta sopra i grattacieli di Tokyo e la sua realtà che lo porta a essere legato a doppio filo al mondo terreno.
Nello spazio tra i due mondi quest’uomo si adagia, come una pianta con le radici ben ancorate e dei rami tanto lunghi che sembra quasi che accarezzino il sole. La sua passione è guardarci attraverso, con un sguardo fiducioso verso un oltre, ma con una compostezza e una dignità formalmente e puramente tradizionali. Non è un caso che la stessa parola Giappone è composta dal “disegno” del Sole e dell’Albero. Luci e ombre, futuro e passato. Technicolor e Bianco e nero. Tutto torna.
Nell’ultimo giorno ripreso dal film, dopo aver salutato sua nipote e aver parlato con un uomo gravemente ammalato, Hirayama sembra proprio sognare quell’oceano che si è promesso di vedere un’altra volta. Lo vediamo rovistare tra le videocassette nel cruscotto del suo minivan e la scelta non può che andare su Feeling Good, contenuta in un cofanetto dal nome ”I put a spell on you”. “The spell” ricorda l’incantesimo che fa rivivere a Bill Murray la stessa giornata per sempre.
E come lo stesso attore – diretto da Sofia Coppola – si ritrovava smarrito in Giappone, l’accettazione dolceamara di una condanna invisibile che vede l’uomo vivere in una ferrea routine questa volta a Hirayama la si legge in faccia: sta per ricominciare un’altra giornata e mentre il sole lo abbaglia i suoi occhi si riempiono di lacrime, tra la commozione e la pesantezza di stare al mondo.
«A volte c’è così tanta bellezza nel mondo che non riesco ad accettarla»
(American Beauty)
Quell’acqua sognata la notte precedente e assorbita nei giorni passati tra il bagno pubblico e le piogge, quel liquido primordiale tanto trattenuto adesso sta per bagnare il viso solcato di questo samurai, altra parola che banalmente significa “colui che serve”.
La scelta di diventare un fantasma, di vagare per la città fin dalle luci dell’alba e fare un lavoro che quasi nessuno apprezza, e poi aspettare ancora la sera, una bevanda fresca, una chiacchierata con quella donna del locale. E poi rifugiarsi nel suo piccolo salotto e rivedere le foto, quelle cose che ha messo da parte nel suo piccolo museo della memoria, dietro a quella porta ben chiusa per evitare di annegarci nei ricordi.
Lo lasciamo così – come il buon Alex del romanzo Jack Frusciante è uscito dal gruppo – nel road movie del fuoricampo, immaginandocelo a fine turno mentre sveste i panni da impiegato comunale e cambia prospettiva, vivendo le sue piccole avventure che possono cambiargli la giornata. D’altro canto “il pomeriggio conosce cose che il mattino ancora non sa”.
Se negli anni ottanta Wenders temeva che lo spirito giapponese originale fosse in pericolo di fronte a una sorta di edonismo a stelle e strisce che stava mangiandosi anche l’Oriente, Hirayama forse non è che un hibakusha. Un sopravvissuto all’abbaglio degli anni moderni, che al posto di ambire alle luci della città, preferisce sognare le ombre.