Lost in Translation e Le notti bianche.
«La poesia è ciò che si perde nella traduzione. Ed è anche ciò che si perde nell’interpretazione».
(Robert Frost)
La solitudine che contraddistingue i quattro personaggi protagonisti delle due diverse opere, Bob e Charlotte nel film, Nasten’ka e il sognatore nel libro, è il motore inconscio della crisi che li spinge a muoversi nella ricerca verso il confronto con l’altro, con il senso delle cose.
Tutti e quattro soli e inquieti, persi nelle traiettorie, ma satelliti fra loro, sono passeggeri distratti, come in un quadro di Hopper. Esistono come individui isolati in cerca di quell’elemento di appartenenza a una società che, chi tra i sogni, chi nella carriera o nell’amore, darebbe un senso di compiutezza alle loro vite, ma che consapevolmente percepiscono inarrivabile perché dipendente dall’esterno e perciò limitante e inafferrabile. Così s’allontanano, a volte compiacendosi della loro malinconia come nei monologhi del sognatore, estraniandosi dalla realtà; una consolazione amara della loro incompiutezza esistenziale.
Nonostante siano circondati da personaggi secondari che orbitano intorno a loro e interferiscono con i loro percorsi, questi non li elevano dalla condizione che vivono, anzi, personaggi come il marito di Charlotte o la nonna di Nasten’ka aumentano la distanza con l’accettazione del proprio destino.
È solo nell’incontro con anime affini, in un tempo protetto come quello della notte che li cela, circoscritto a dei giorni, che trovano il coraggio di entrare in comunicazione, schiudersi, quasi per necessità, in una maniera intraducibile solo col dialogo e le parole. L’intimità emotiva che si crea fra le due coppie va al di là della definizione di solo amore, o solo amicizia, e in entrambi gli epiloghi andrà perduta per gli altri la poesia di quel contatto. È esistito solo per loro.
Nelle opere lo sfondo in cui i protagonisti si muovono sono due grandi città, protagoniste tanto quanto le persone: Tokyo e Pietroburgo, che caratterizzano l’opera e fungono da elemento scatenante per l’attivazione delle dinamiche interiori estranianti dei protagonisti.
Tokyo sempre accesa, illuminata dalle insegne, vasta e frenetica, distante dalla concezione occidentale di apparenza, si rifà ai ricordi di Sofia Coppola che la celebra nella sua contrapposizione: tecnologica e tradizionale. Culla delle solitudini generali sono le stanze di un albergo, luogo di passaggio continuo di storie, che isola i due protagonisti nelle differenze culturali, con piccole gag di Bill Murray che alleggeriscono il tono della trama e conferiscono il senso di smarrimento, di intraducibilità dell’identità, anche comica.
Pietroburgo invece, è accesa dal sole di mezzanotte, che rende le notti bianche per un certo periodo dell’anno e risulta svuotata e nuova per i protagonisti che non vanno in villeggiatura. Gli incontri della coppia al fiume, a passeggio, sono sempre trascinati da qualcosa che li isola nella bolla dei loro dialoghi, delle loro confidenze personali, tentano di sfuggire alle dinamiche del loro mondo.
Sia nel romanzo che nel film, il meteo instabile fa da cornice come ostacolo ed estensione degli umori dei protagonisti enfatizzati, nella pellicola, dalla colonna sonora che mette l’accenno sui momenti di riflessione personale e la fotografia dai colori nostalgici; è in questa atmosfera velata e balsamica che le anime affini si riconoscono, vibrano ed entrano in connessione.
«Quanto più siamo infelici, tanto più profondamente sentiamo l’infelicità degli altri; il sentimento non si frantuma, ma si concentra».
(Fëdor Dostoevskij, “Le notti bianche”)
Il film si apre con l’arrivo in taxi di Bob, un attore americano di mezz’età, con una carriera in declino, che sponsorizza whiskey per far soldi ed è fiaccato dalla routine del suo lungo matrimonio. Identifica i grattacieli e le strade della città nuova mentre gli vengono incontro, come il sognatore che dialoga nelle prime pagine del romanzo con i palazzi di Pietroburgo, rendendoli compagni delle sue passeggiate; entrambi gli uomini familiarizzano con il luogo, l’ambientazione, e cercano un alleato in due città vuote di incontri reali.
Charlotte, dall’altra parte, inganna il tempo, fa attività, passeggia sola per la metropoli, curiosa; l’abilità di Sofia Coppola sta nel rendere sempre presente una patina di distanza, un senso di amara rassegnazione, di “malinco-noia” che contraddistingue anche i sogni a occhi aperti del narratore del romanzo.
Così, per un incontro fortuito, Bob e Charlotte si attirano in un ascensore: si identificano.
Lei è un’americana neo-laureata in filosofia, in cerca della sua strada, che ha seguito il giovane marito in Giappone per lavoro, quasi abbia colto l’evento per sfuggire alla scelta sul suo futuro, alla paura di non farcela. Un po’ come fa Nasten’ka che coglie l’amore con il giovane inquilino per scappare dalla nonna cieca, che le spilla la gonna alla sua condannandola a una non-vita da reclusa.
Bob e Charlotte si studiano da lontano nei primi approcci, si sorridono, si sfuggono, come Nasten’ka e il sognatore, che entrano in contatto solo quando un uomo in frac ubriaco tenta di importunarla, e lui la salva offrendole il braccio: un atto di fiducia che instaura immediatamente un legame fra i due, una complicità più vecchia di loro. Così nel film è l’incontro al bancone del bar, uno scambio reciproco di presentazioni e confidenze, nel cuore della notte, che delinea le personalità e scopre, con poche battute, i punti deboli dell’essere umano e dei protagonisti.
È l’insonnia dei pensieri insoddisfatti che insegue i quattro, li tiene svegli, ma è l’incontro che li ferma e li accende con un moto inverso, che a tratti li respinge e a tratti li avvicina, li incuriosisce e li fa cercare, rincontrare tutte le sere al fiume o fra i corridoi dell’albergo.
È quella scintilla che spinge Bob e Charlotte ad andare a una festa, a correre per Tokyo, riaccende le speranze del sognatore nei confronti dell’amore, della realtà, spinge Nasten’ka a scrivere al suo amato e, nella trasposizione cinematografica del romanzo di Luchino Visconti, porta Mastroianni a ballare con Natalia.
I contatti fisici sono sporadici perché simbolici di avvicinamenti lievi. I monologhi del sognatore, la volubilità di Nasten’ka, le canzoni al karaoke, la maglietta a fantasie di Bob, sono attimi in cui le anime si sfiorano nell’imbarazzo, a costo di apparire ridicole sono oneste, non si vergognano, si accettano e si spalancano sull’altro: approfondiscono il grado di conoscenza e si mischiano.
Coinvolgono l’altro nella loro solitudine, vulnerabile, restituendogli un riscontro di sé, qualcosa che diventa parte integrante dell’individuo e non si tratta più d’una solitudine isolante, ma d’una solitudine che li rende consapevoli nel confine dell’esistenza dell’altro. Imparano così a custodirsi a vicenda, condividendo storie e tempo, breve, ma inteso. Sanno di essere soli, sì, ma insieme.
Si consolano e motivano a vicenda anche se questo li allontanerà fisicamente, Bob spinge e rassicura Charlotte nella scena iconica del dialogo sdraiati a letto, mentre il sognatore inventa scuse per non ferire Nasten’ka, quando il suo amato non si presenta.
Bob: «Più conosci te stesso e sai quello che vuoi, meno ti lasci travolgere dagli eventi».
Charlotte: «Già, è solo che io non so cosa voglio diventare, capisci? Ho cercato di fare la scrittrice, ma detesto quello che scrivo. Mi sono messa a fare fotografie, ma sono mediocri. Sai, ogni ragazza attraversa la fase – la fotografia – la fissa dei cavalli… O fa foto dei piedi».
Bob: «Ce la farai di sicuro, non sono preoccupato per te. Continua a scrivere».
Charlotte: «Ma ho dei limiti».
Bob: «Non è un male!».
Non consumano il loro rapporto perché tutto resta effuso nel magnetismo che li tiene legati nelle infinite possibilità. La sessualità rimpicciolirebbe all’atto, allo scontro, la portata della connessione fra le loro anime, anche se in entrambe le storie lo desiderano. Si rendono così consapevoli dell’invalicabile solitudine dell’individuo che anche nell’amore resta presente, e in un rapporto li distruggerebbe; nel mondo reale sarebbero relazioni che ritengono razionalmente impossibili, perciò scelgono di restare divisi e malinconicamente coerenti con la realtà in cui vivono. In qualche mondo parallelo Charlotte e Bob hanno fondato la jazz-band insieme.
Sono le loro anime a far l’amore, ecco perché diventa così complesso l’addio, con degli strascichi: nel libro è la lettera del mattino dopo di Nasten’ka, nel film Bob ferma il taxi perché manca qualcosa a completare il cerchio. Quel bacio che sublima e chiude in maniera circolare il loro rapporto. È l’abbraccio finale per la strada, il bacio che delimita la fine della connessione spaziale e li restituisce al mondo razionale diversi, nuovamente soli e perduti fra la folla, ma cambiati.
Lasciando sospesa per sempre in quel sussurro di Bill Murray, mai dichiarato, la poesia intraducibile del loro rapporto, e di tutte quelle relazioni che avrebbero potuto essere, ma non sono state.
«…che tu sia benedetta, infine, per l’istante di felicità, di gioia che hai concesso ad un altro cuore solitario e riconoscente! Dio mio! Solo un istante di felicità. Ed è forse poco per tutta la vita d’un uomo?».
(F. Dostoevskij, “Le notti bianche”)
Lost in Translation e Le notti bianche.