Her e Lost in Translation.
“Nella vita il vero amore si può mancare, se lo si incontra troppo presto o troppo tardi.”
Wong Kar-Wai
Nell’arco di un decennio, Sofia Coppola e Spike Jonze si parlano, si incontrano nei racconti di loro stessi, si scrivono lettere sotto forma di opere cinematografiche.
Ci fu un tempo in cui questi due registi, incontrandosi, si innamorarono. Era il lontano 1999 quando il loro amore decise di vestire i panni del matrimonio, terminato poi nel 2003. In questo stesso anno vide la luce Lost in Translation, un’opera intima, personale ma al contempo universale, che consacrò Sofia Coppola nel mondo del grande cinema, permettendole di vincere l’Oscar alla miglior sceneggiatura originale. Il medesimo premio lo ottenne 10 anni dopo, nel 2013, l’ormai ex marito Spike Jonze con Her, una pellicola altrettanto privata e profonda, capace però di toccare i vissuti e i sentimenti di tutti.
Questi due film dialogano, si urtano e danzano sulle note create dalle loro numerose assonanze. Una di queste è la partecipazione di Scarlett Johansson in entrambi i film, protagonista in Lost in Translation, interpretando la giovane Charlotte, e personaggio presente nella propria assenza in Her, essendo “solo” la voce di un sistema operativo, Samantha.
Entrambe le opere cinematografiche si immergono negli immensi spazi della solitudine e della malinconia, e, perdendosi in questa superficie profonda, raccontano un amore senza un’effettiva storia d’amore. Inoltre, il protagonista di Her, Theodore, e l’ex moglie, Catherine, erano stati amici d’infanzia prima di sposarsi, proprio come Spike e Sofia. Charlotte, invece, è una donna ancora in dubbio su cosa volere dalla vita, sposata con un video maker pronto ad un’importante carriera, esattamente come Sofia e Spike in un particolare momento della loro vita.
Charlotte e Theodore rappresentano Sofia Coppola e Spike Jonze, sono semplicemente il loro passato, il racconto di loro stessi, il che, è la medesima cosa.
Lost in Translation e Her sono una chiamata e una risposta dei rispettivi autori, sono la medesima storia raccontata da due vite che hanno intrapreso strade diverse, sono due lettere sospese nel loro esser sussurrate.
Lost in Translation appare esattamente dopo la fine dell’amore di Sofia Coppola, rappresentando una risposta immediata all’ex marito, una richiesta ormai tardiva della sua presenza.
Charlotte è tutto ciò che Sofia Coppola fu, ciò che un amore disattento le ha provocato, ciò che ha faticato ad essere, ciò che ha scoperto e trovato per diventare la persona che è oggi.
Nel film, Charlotte esprime la sofferenza di un’anima persa in una vita che non è più la sua, o che forse non lo è mai stata. La protagonista è sposata con John, la rappresentazione di Spike Jonze, un uomo innamorato della sua donna, pronto a donarle il suo cuore, ma con la testa immersa nel suo nuovo lavoro. Charlotte, appena laureata in filosofia, ancora incerta riguardo al suo posto nel mondo, è alla ricerca di sé stessa, di qualcosa che le permetta di esprimersi autenticamente. L’assenza del marito le farà perdere anche l’ultima certezza, l’ultima ancora di salvataggio che le consentiva di riconoscere chi osservava quando era davanti allo specchio. Nel momento in cui anche l’ultimo barlume di speranza si spense, quando si trovò totalmente abbandonata insieme alla propria solitudine, Charlotte decise di ricercare sé stessa non più in John, ma in qualcosa o qualcuno di altro. Ed ecco che la loro storia d’amore terminò.
Her, invece, è la lettera che Spike dedica a Sofia. Dieci anni dopo la confessione che fu Lost in Translation, il regista, nelle sembianze di Theodore, risponde all’ex moglie.
Theodore è ciò che Spike Jonze, ora, è. Theodore è quel John, ma dieci anni dopo, con una consapevolezza tale da cambiargli la visione della vita, profondamente.
Nella pellicola, il protagonista scrive lettere personali per sconosciuti incapaci di esprimere le proprie emozioni, opera quindi un lavoro di traduzione, smarrendosi negli amori e sentimenti altrui, come se fosse perso in una traduzione, come se fosse lost in translation. Il suo personaggio racconta storie di altre persone, ma non è in grado di vivere autenticamente la propria, esattamente come Jonze, un regista che, narrando gli altri, si dimentica di sé stesso.
Abitando in una società di singoli isolati che vivono in comunità, Theodore è devastato emotivamente a causa della fine del suo matrimonio, perdendo Catherine, la donna con la quale ha trascorso i migliori momenti della sua vita. Il protagonista, però, attraverso il paradossale incontro con un sistema operativo di nome Samantha, riuscirà a riprendere le redini della propria vita, acquisendo una consapevolezza tale da imparare a gestire la propria sfera emotiva, ciò che gli era costata la fine del suo matrimonio.
Questo gli permette di scrivere una lettera, la sua lettera, all’ormai ex moglie. Una lettera vera, umana, sincera, autentica, che rappresenta essenzialmente ciò che Theodore, dopo dieci anni di sofferenze, incontri, scontri e tormenti, è diventato. In questo modo, il protagonista sarà finalmente in grado di lasciare andare Catherine.
Spike Jonze impiega dieci lunghi anni a scrivere quella lettera, la lettera indirizzata a Catherine, a Sofia, a sé stesso.
“Cara Catherine (Sofia), ho pensato tanto a tutte le cose per cui ti vorrei chiedere scusa, a tutto il male che ci siamo fatti, a tutto quello di cui ti ho accusata, a tutto ciò che avevo bisogno che tu fossi o dicessi. Ti chiedo perdono. Ti amerò sempre perché siamo cresciuti insieme e mi hai aiutato a essere chi sono. Voglio che tu sappia che ci sarà sempre un po’ di te dentro di me e ti sono grato per questo. Chiunque tu sia diventata, in qualunque parte del mondo tu sia, ti mando il mio amore. Sei mia amica per sempre.
Con amore, Theodore (Spike)”
Nei due film il pendolo dell’esistenza oscilla tra due poli molto lontani, ma che si avvicinano in un preciso istante. È come se ci si chiedesse cosa sarebbe peggio: esser abbracciati dalla propria solitudine nello spazio vuoto del letto o sentirsi distanti dalla persona presente al proprio fianco; esser soffocati dalla solitudine di una sfuggente Los Angeles o sentirsi sommersi dall’indistinguibile folla di Tokyo; perdersi nelle emozioni di sconosciuti rifuggendo dalle proprie o non avere la minima idea di cosa fare della propria vita.
La storia è la stessa, il racconto di essa cambia a seconda di come la si è vissuta.
Charlotte e Theodore guardano fuori dal finestrino di un treno, cercando qualcosa, senza sapere davvero cosa, forse loro stessi, forse l’un altro, forse un passato mai accaduto, forse un futuro irrealizzabile. È come se loro anime si ricercassero, in un altro tempo e in un altro luogo; come se immaginassero quell’istante in cui il loro amore poteva essere reale, semplicemente.
Quando Charlotte guarda fuori dall’enorme finestra dell’attico è come se aspettasse quella lettera, quella fatidica lettera che arrivò dopo dieci anni di ritardo e tormentosa contemplazione.
Theodore e Charlotte sono due spiriti affini che hanno avuto solo la sfortuna di incontrarsi al momento sbagliato delle loro vite; due anime complementari che è come se si trovassero nel film sbagliato.
Nella vita il vero amore si può mancare, se lo si incontra troppo presto o troppo tardi; in un’altra epoca, in un altro luogo, la loro storia sarebbe stata diversa. Così sosterrebbe il maestro Wong Kar-wai, colui che fu nominato dalla regista durante il discorso di ringraziamento per l’Oscar, colui che tacitamente è stato presente lungo l’intero corso di entrambe le pellicole.
Se Theodore e Charlotte oggi si incontrassero, si innamorerebbero.
Se Spike Jonze fosse stato Theodore al tempo in cui Sofia Coppola fu Charlotte, allora, la loro storia sarebbe finita diversamente.