Valerio Mastandrea con Ride, suo esordio registico, è alle prese con un tema quanto mai insaziabile e presente a noi stessi sin dalla notte dei tempi: la morte. Guardandola attraverso gli occhi di chi resta – dedicatario del film, come si legge sullo schermo nei primi minuti – Mastandrea racconta la morte trascendendo la sua dimensione esistenziale e interrogativa e la rivela, al contrario, in quanto fatto concreto e biologico, manifestandosi essa solo in una non-forma, strutturalmente parlando: l’assenza. Un’assenza tanto prepotente da avere la capacità sgraziata di mettere in discussione la presenza di chi, invece, è lì a consolare, a proteggere e difendere.
Interpretata da Chiara Martegiani, Carolina – moglie di Mauro, morto in un incidente sul lavoro – inversamente a quanto si aspetterebbe un pubblico con una spiccata predilezione per il melodrammatico, non è la vedova straziata dal dolore che non riesce a proferire parola circa quanto accaduto tempestivamente.
Non manca tuttavia, nel corso del film, una comparsata di questo tipo: è il ruolo affidato alla ex di Mauro, suo primo amore degli anni del liceo, che irrompe in casa della donna con poca delicatezza e che, senza scrupoli, si perde in racconti strappalacrime, concedendosi anche il lusso di singhiozzare sdraiata su un divano niente affatto suo, davanti all’impassibilità di una Carolina intontita e sconcertata.
Carolina è una donna che ama con una disperazione tanto dignitosa quanto ben poco umana, e che davanti alla perdita dell’amore si chiude in se stessa perché non sa affrontare, se non in questo modo, il dolore lacerante e ingestibile che la attanaglia. O meglio, non riesce a piangere. Non riesce a fare esplodere la sofferenza in maniera visiva e concreta: attraverso delle banalissime e umanissime lacrime. Ci prova, si siede sul divano di casa, accende lo stereo e fa partire gli Ultravox, tra le mani stringe un pacco di fazzoletti: ma nulla, le lacrime non sono pronte a venir fuori.
Il figlio, invece, simula con un amico il funerale del padre e parla con apparente serenità con la madre circa gli indumenti più adeguati da indossare durante la celebrazione. Apparente, appunto. Il suo atteggiamento è frutto della necessità di esorcizzare il dolore, a sua volta figlia della mente di un ragazzino che non sa come rapportarsi – se non così – a qualcosa di più grande di lui.
E poi c’è la signora Ada, una Milena Vukotic diretta e spietata quanto a sincerità:
Lo so che non è facile, tesoro. All’inizio non dormivo più, non mi lavavo più, non mangiavo più. Me ne stavo sempre chiusa in casa. Mi vergognavo così tanto. Ma poi passa tutto. E sai quando passa?
No.
Quando capisci che la prossima sei te.
Ada rimprovera a Carolina la sua trasandatezza, la sua sciatteria e fiacchezza, il fatto che non badi più a truccarsi e a farsi bella. Non proprio a caso, infatti, una delle colonne sonore è E sei così bella di Ivan Graziani, che irrompe senza pietà verso gli ultimi minuti. Ed odiarti lo vedi è più forte di me, canta il noto chitarrista: lasciandoci immaginare come, dopotutto, sia stato un amore qualsiasi quello di Carolina e Mauro, bello nella sua semplicità, un amore in cui ci si ritrova ad esser vittime del canonico odi et amo oraziano, per le piccolezze della vita, per le cose più grandi.
Tra i tanti come stai? di circostanza, in un dialogo con Nicola, Carolina inscena una sfuriata in cui prova a spiegare – quasi andandosi a giustificare – il modo in cui sta affrontando il lutto:
Sai cosa faccio la mattina dopo che ho fatto le mie cose? Vado di là in cucina e preparo la tavola come l’ultima sera. Faccio finta di fare la pasta, mi siedo lì e aspetto. E non succede mai niente. Volevi sapere come sto? Così sto.
Quando viene meno qualcuno a mancarci è il suo corpo, prima di tutto. Perché è da lì che tutto ha origine, banalmente: se avvertiamo la mancanza di una grafia, di un modo di scrivere, sono quelle mani a mancarci.
Se avessi avuto più tempo là nel buio estivo
con l’edera che filtrava dalle grate
nella camera che chiamiamo ardente per i ceri
o il rogo che ci attende, o forse davvero per l’ardore
con cui chiediamo a chi ci lascia: resta,
le avrei detto cose semplici, quotidiane,
per l’ultima volta toccandole le mani.
Testo di Antonella Anedda, la scrittrice pubblica la raccolta poetica Historiae nel 2018, mettendo da parte qualsiasi tipo di reticenza in merito alla perdita di una persona cara, andando allo stesso tempo a scardinare la complessa concezione del tempo. Più volte ricorre in quest’opera la presenza di un corpo materno privo di vita e di un raffronto tangibile e poco vago con il lutto.
Si legge, nelle sue poesie, di una frustrazione e di un dolore che colgono impreparati, soprattutto quando tocca fare i conti con la quotidianità tutta fatta di indumenti e oggetti. Proprio come la stessa Carolina parla del suo attendere invano, aspettare che accada qualcosa, quando non si ha la forza di muoversi e darsi da fare, ma solo quella di stare seduti, in Anedda troviamo reazioni di inerzia al lutto, di totale mancanza di volontà, e l’attesa, ancora una volta, è la vera motrice della storia:
Si resta giorni interi inginocchiati tra stoffe,
cinture, guanti rovesciati dai cassetti
indecisi su cosa regalare, tenere, buttare,
poi l’incertezza trova la sua strada: infilare
la testa nel monte più fitto della lana, stringersi
al nero dei cappotti, masticare in letargo
la pena strisciata come cibo. Farsi una tana
e lì aspettare che ritorni l’amore per i vivi.
Nei testi di Anedda si inciampa, tuttavia, in una riflessione bipartita sulla morte: da una parte ci si imbatte in destini individuali, dall’altra in qualcosa di più collettivo, in una questione sociale e politica se vogliamo, quella storica e universale del presente e che ci riguarda – senza scampo – strettamente. La morte, ovvero, che ci passa accanto attraverso i media, quella che ci assorbe e divora e che fa parte della nostra quotidianità tanto che ormai, colpevolmente, la consideriamo per abitudine quasi una nostra commensale. Inesorabile è l’indifferenza al male che ne deriva: L’ennesima notizia della strage arriva questa sera / nell’ora in cui messi gli ultimi panni in lavatrice / si scoperchiano i letti per dormire.
La morte, dunque, in tutte le sue molteplici sfaccettature non lascia vie di fuga all’impotenza umana.
Il dolore si manifesta, allora, con una forma di impassibilità delineata da braccia e mani ferme, espressioni piatte, piuttosto che con pianti sguaiati. È questo che ci racconta Valerio Mastandrea attraverso il lutto di Carolina. Non si sfugge al dolore. Né lo si può tantomeno ignorare. Non si accetta che il sole risorga ancora e ancora, dopo la morte di una persona amata. Ma il modo per affrontare una perdita non ce lo scegliamo, semplicemente il lutto ci coglie arresi in partenza, prima ancora che l’arbitro fischi.