Siamo quello che mangiamo. Così il padre del materialismo tedesco, Ludwig Feuerbach, descrive sentenziosamente il rapporto dell’uomo con il cibo. Ma se fossimo anche quello che vediamo?
Dopotutto, nella Settima Arte come a tavola, anche l’occhio vuole la sua parte. La narrazione va a braccetto con il gusto.
Come sostiene il giornalista enogastronomico Marco Lombardi nel libro Gustose Visioni – Dizionario del cinema enogastronomico, sembra che non esista film in cui non ci sia una scena dove i protagonisti mangiano o bevono. «Se si vuole raccontare una storia, risulta pressoché impossibile non inciampare in qualche situazione enogastronomica (…) La tavola non è solo nutrizione, ma anche, e talora soprattutto, un privilegiato e sofisticato ambito relazionale» sostiene lo studioso. Perlomeno, in Italia e nei paesi di lingua e cultura latina. E, come vedremo, non solo.
Mine Vaganti di Ferzan Özpetek è un esempio lampante, dell’amore a prima vista tra cibo e cinema. Protagonista è Tommaso (Riccardo Scamarcio), un ragazzo laureato in Lettere che sogna di diventare scrittore. Conduce una vita spensierata a Roma con gli amici e il compagno Marco, lontano dalla famiglia bigotta del Salento, a capo di un pastificio industriale.
Tommaso decide finalmente di liberarsi di un peso e fare coming out con i parenti, ma il fratello Antonio (Alessandro Preziosi) gioca d’anticipo. Durante una cena d’affari, dichiara la propria omosessualità al padre, causandogli un infarto. Tommaso è obbligato, per preservare la salute instabile del padre arretrato, a fare marcia indietro e prendere il posto del fratello all’interno dell’industria di famiglia.
Al di là della tragicommedia, la cornice di Mine Vaganti è composta in buona percentuale dalla tavola e dal cibo. Non a caso, la famiglia di Tommaso e Antonio produce pasta, simbolo per eccellenza nel Nostro Paese di famiglia, pranzi della domenica, tavolate chilometriche di parenti. Saliente la scena in cui la nonna (Ilaria Occhini), la mina vagante, affetta gravemente da diabete, compie una sorta di suicidio, truccandosi davanti allo specchio, per poi abbuffarsi davanti allo specchio di dolciumi.
I dolci sono appunto, anche per l’importanza estetica che possiedono, padroni del cinema enogastronomico.
Come dimenticarsi di Chocolat (2000), con un giovanissimo e sensuale Johnny Depp? Protagonista della pellicola è Vianne (Juliette Binoche), una donna libera e forte che apre una sensuale cioccolateria in un paesino francese nel lontano 1959, proprio durante le settimane di digiuno quaresimale.
Johnny Depp appare anche ne La fabbrica di cioccolato (2005), ispirato all’omonimo romanzo di successo di Roald Dahl (1964), scrittore per l’infanzia che ha incantato generazioni di ragazzi.
Peccato di gola anche per Renée Zellweger in Il diario di Bridget Jones (2001), dove l’attrice premio Oscar interpreta la pasticciona e buffa trentenne Bridget, alle prese con incontri sfortunati, figuracce e l’uomo della sua vita, l’opposto, complementare e affascinante Mark Darcy (l’impeccabile Colin Firth). Bridget compensa la solitudine iniziale, prima di incontrare il suo Mr. Darcy, con un calice di vino (sulle note di All by myself, outfit pigiama natalizio rosso Babbo Natale, un must dato il periodo) e dolci consolazioni. Chi non si è mai sentito un po’ come lei?
Insomma, si potrebbe andare all’infinito a elencare le pellicole dove il cibo la fa da padrone, a iniziare da un semplice bicchiere di latte.
Il latte più di Arancia Meccanica (1971) del maestro Kubrick, o il bicchiere di latte chiesto con inquietante tranquillità da Christoph Waltz in Bastardi senza Gloria (2009) a un contadino francese che nasconde la bellissima ragazza ebrea Shosanna (Mélanie Laurent), a cui in seguito verrà offerto dallo stesso il famoso Strudel tedesco. «Attenda la panna!», una delle iconiche battute del genere tarantiniano.
E proprio Tarantino, forse galeotte le origini italiane, nel capolavoro premio Oscar Pulp Fiction (1994) apre il sipario su una tavola. E cibo e cinema continuano a dialogare per tutto il film.
I due criminali Ringo (Tim Roth) e Yolanda (Amanda Plummer), appena terminato di mangiare, bevono un caffè, e rapinano una tavola calda. Nella seconda scena, Vincent Vega (John Travolta) racconta a Jules Winnfield (l’attore feticcio di Tarantino, Samuel L. Jackson) che a Parigi l’hamburger americano quarto di libra con formaggio viene chiamato royal con formaggio e che le patatine in Olanda vengono letteralmente affogate nella maionese. Per non parlare del monologo da brividi di Jackson e del cheeseburger assaggiato da quest’ultimo, prima di far fuori due ragazzi. O della indimenticabile cena al Jack Rabbit Slim’s, dove Mia Wallace (Uma Thurman) ordina un hamburger al sangue con un frappè da 5 $, mentre Vega una bistecca grondante sangue con una coca-cola alla vaniglia. Due accostamenti audaci, come tutto l’universo tarantiniano.
Cibo e cinema, un amore a prima vista che sboccia anche nella tenera età dell’infanzia.
Ratatouille (2007), Piovono polpette (2009) e Piovono polpette 2 (2013) ne sono solo tre esempi. O ancora Lili e Vagabondo, cartone Disney del 1955 dove un piatto di spaghetti a lume di candela fa scattare il bacio tra i due protagonisti canini.
Il cibo dunque non è solo una moda passeggera che pullula sui canali televisivi, inondati da format internazionali di successo come Masterchef, Bake Off, Hell’s Kitchen e così via. L’alimentazione, la (condi)visione del pasto è un punto nevralgico della storia sociale dell’uomo, dalla nonna che prepara il ragù alle sette del mattino per i nipoti, al caffè, o la birra offerta a un amico, o alla persona che ci piace, come scusa per incontrarsi e stare insieme. Cibo e cinema vanno a braccetto, sono fenomeni socio-culturali, antropologici, che plasmano eventi, dalla quotidianità alla mondanità. Senza una tavola a cui sedersi intorno per parlare e mangiare, bere, non sarebbero esistite ed esisterebbero storie che i grandi maestri del cinema palpitano per raccontare. E mostrare: «The eyes chico, they never lie…» (Scarface).
Siamo quello che mangiamo sicuramente, aveva ragione il nostro amico Feuerbach, ma anche quello che vediamo. Rielaborando Shakespeare, siamo fatti della stessa sostanza dei film che guardiamo.