Per godersi Cabinet of Curiosities ci si dovrebbe immaginare intorno a un fuoco. Un narratore, nel nostro caso lo stesso Guglielmo del Toro, ci introduce ogni storia e uno per volta i registi prendono parola. Le storie narrate hanno autori differenti, provenienze e tematiche variabili, ma alcuni fili conduttori comuni: l’inquietudine e gli esseri umani.
Una storia per volta
Cabinet of Curiosities prodotta da Guglielmo del Toro spazia tra differenti tipologie e visioni di ciò che si può intendere per horror e ciò è permesso proprio dal cambio di regista e registro che avviene ogni puntata. Negli otto episodi vediamo uomini e mostri, paure, ansie, inquietudini, ma anche molto altro.
Tramite la maschera dell’orrore ogni storia racconta una fallacità umana. Le debolezze, i vizi, le ossessioni dell’essere umano sono scavate e raccontate tramite i filtri dell’inquietudine e dell’irrequietezza. Che siano fantasmi, alieni o uomini, non esistono veri buoni o cattivi, poiché tutti risultano in un modo o nell’altro corrotti dai sentimenti e gli istinti che li sopraffanno.
Se una puntata ci riporta alle atmosfere di Hill House, quella successiva pare più un qualcosa di futuristico e fantascientifico. E se un episodio pare un rimando ai linguaggi e lo stile tipico di Stephen King, quello dopo pare una puntata di Black Mirror. Per poi scivolare nelle narrazioni di Lovecraft in quello subito dopo.
Questa non costanza stilistica può sicuramente disturbare superficialmente, facendo presumere una mancanza di connessione tra un episodio e l’altro. Ma in realtà fornisce esattamente il ritmo che si crea quando ci si racconta storie dell’orrore tra amici.
Riuniti intorno al fuoco uno per volta gli autori prendono la parola e raccontano la loro personale storia. C’è chi racconta la storia di un uomo avido e logorato dall’odio che incontra il diavolo. Così come chi narra di una donna che salva due spiriti bloccati nel passato grazie alla sua sensibilità al lutto.
Ognuno a modo suo, con il suo stile, con i suoi mostri, i suoi delitti e le sue debolezze gli autori ci tengono in attesa intorno al fuoco immaginario tenuto acceso da del Toro.
Il Cabinet of Curiosities di Guglielmo del Toro
Ma la metafora per la struttura di questa serie scelta da del Toro è quella che le da il nome: un Cabinet of Curiosities. I wunderkammer, o gabinetti delle meraviglie, o cabinets of curiosities erano oggetti, o meglio fenomeni, che affondano le loro radici fin dal Medioevo sviluppandosi poi per tutto il seicento e oltre. Erano particolari ambienti, simili ad armadi, ma anche vere e proprie stanze, in cui collezionisti racchiudevano oggetti strani e meravigliosi.
Ogni oggetto, come ogni nostra storia, racchiudeva specificità e significati particolari, a volte non così comprensibili se non se ne conosceva la vera natura. Ciò che magari apparentemente appariva in un modo finiva per risolversi in un altro del tutto inaspettato. E così del Toro, il nostro collezionista, ci mostra le sue storie, le sue puntate, i suoi particolari e inquietanti oggetti meravigliosi.
In ognuno di essi sembrano essere nascosti tratti dell’umanità. Vizi, ossessioni, paure, follie, ambizioni, frustrazioni, speranze disilluse, elaborazioni del lutto, dolori. Ognuna a modo suo mostra le estremizzazioni e gli orrori dell’umanità stessa. Senza sfociare in quelle ovvie, quelle che vediamo tutti i giorni sui giornali. Vengono individuate quelle intrinseche, quelle silenziose, quelle che serpeggiano sottoterra come quei topi che da una storia all’altra continuano a riapparire.
Non si hanno veri e propri mostri. Non si hanno veri e propri cattivi. Ma esseri umani che mostrano i peggiori lati della loro stessa umanità. Ed è forse questo che contemporaneamente non spaventa ma fa paura. Sono storie che lasciano chi le guarda in balia di se stesso. Storie che chiedono una riflessione e non un urlo o un salto sulla sedia.
Guglielmo del Toro presenta…
Guglielmo del Toro è elegante come sempre. Ambiguo, controverso, come una storia raccontata sottovoce. Ricorda, nelle sue introduzioni, Hitchcock nella sua serie Alfed Hitchcock presenta e il rimando non parrebbe casuale dato che forse non è nemmeno l’unico. Ad esempio, alcune scene dell’ultima puntata sembrano strizzarci l’occhio e ricordarci proprio uno dei suoi film più famosi.
Per coloro che si sono approcciati a questa serie aspettandosi scene splatter, jump scares e simili purtroppo immagino ne rimarranno delusi. La serie segue un po’ quell’impronta horror alla Netflix che sembra ripetersi da alcune puntate di Black Mirror a Hill House. Uno stile horror lento, sofisticato, quasi antico, in cui il vero orrore sono lati dell’umanità stessa.